domenica 1 dicembre 2013

Mulini, segherie e fucine

storia della valle:

Mulini, segherie e fucine che il tempo non ha cancellato
08 giugno 2012 — pagina 26 sezione: Nazionale

Se ancora per tutti gli anni Cinquanta le condizioni di vita dei ledrensi non avevano subito cambiamenti sostanziali, sotto la spinta del fenomeno turistico, la valle ha cambiato faccia. Recuperi, riconversioni e ristrutturazioni di vecchie abitazioni da una parte assicurano migliori condizioni di vita ai residenti dall'altra hanno condannato alla sparizione, totale o parziale, dei segni del passato. Alcune di queste testimonianze però, secondo Donato Riccadonna, meritano un'attenzione speciale anche da parte pubblica. Sono la “Bot de l'òra” all'esterno della fucina Tonini di Pre, i resti dell'unico forno per la pece in località Costa Piana a Tiarno di Sopra (L'ultima cotta risale ormai al 1958), e la ruota idraulica dell'officina Maroni a Biacesa, una delle due uniche originali rimaste in valle, che conserva ancora la sua struttura, seppur danneggiata, è tuttora nella sua sede e conserva l'albero metallico che trasferiva il moto alle macine in pietra dentro l'officina. LEDRO Nel terzo dei Quaderni editi dall'Araba Fenice , associazione presieduta da Donato Riccadonna, Alessandro Riccadonna e Stefano Salvi presentano quel che resta oggi in val di Ledro dei circa 200 opifici attivi nell'arco di quattro secoli, dal 1700 alla metà del 900. La ricerca degli autori parte da quello straordinario documento che è il Catasto Teresiano del 1859, rappresentazione di eccezionale precisione dell'intero territorio della valle: confini delle particelle fondiarie ed edificiali, numerazione degli edifici pubblici e di quelli privati, nome e cognome del proprietario, la sua occupazione lavorativa, residenza, destinazione d'uso dell'edificio, dimensioni. Siccome agli autori interessavano “Acqua e fuoco al lavoro”, ovvero le tracce delle antiche attività che sfruttavano come forza motrice i torrenti ed il calore del fuoco, hanno individuato sui fogli del Catasto teresiano 35 mulini, 6 segherie, 3 mulini-segherie, 27 fucine, per un totale di 71 laboratori spartiti nei 10 comuni catastali, le centrali idroelettriche, le calchere, la cartiera, le fornaci per i laterizi, la fabbrica della pece e quelle della magnesia. Poi sono usciti all'aperto a rintracciare quel che rimane. Il libro appena edito presenta il risultato della ricerca in tre sezioni: Acqua, Fuoco ed Acqua e fuoco. Nalla prima 24 mulini, 13 segherie, 3 centrali idroelettriche ed 1 cartiera. La cartiera, costruita nella prima metà dell'800 a valle di Biacesa rimase attiva fino al 1904: quand'era gestita da Antonio Bernabè produsse la carta filigranata per francobolli custoditi a Vienna e considerati i più antichi del mondo. Nel settore del fuoco, accanto alle 28 calchere già oggetto d'uno studio da parte degli operatori ambientali,delle carbonaie e delle fornaci per latyerizi (l'ultima in val dei Molini ha prodotto coppi e “quarei” fino al 1930) è preziosa la testimonianza di Ezio Corsetti, ultimo “pegolòt” capace di spiegare la procedura da seguire: si parte dalla “tia”, il cuore delle ceppaie di pino silvestre che, pulite e seccate, erano cotte per almeno 30 ore in un forno da cui la pece cominciava a colare dentro un paiolo, dove bolliva per addensarsi ed infine filtrata e versata in stampi d'un etto ciascuno. Acqua e fuoco collaborano nelle fucine da cui uscivano le brocche, d'una ventina di tipi: quelle più semplici richiedevano una trentina di colpi di martello ed un bravo “ciuarol” nel produceva anche mille al giorno. Gli autori hanno raccolto le testimonianze di Umberto Canali, Elio Pellegrini Marino Berti che una fotografia ritrae all'opera durante la Festa del Sole del 2011. Delle fucine l'officina Mazzola, costruita nel 1850 lungo il torrente Ponale ed in attività (dopo il passaggio all'alimentazione elettrica del 1929) fin dopo la seconda guerra mondiale, conserva ancora gli attrezzi originali utilizzati per lavorare il ferro: la forgia col crogiolo ed il maglio. Ne uscirono cerchi per le ruote dei carri, aratri, spartineve, zappe, picconi, roncole usati in tutta la valle. Le fabbriche di magnesia erano quattro, una a Pieve (aperta nel 1845, prima in Europa), una a bezzecca e due a Molina. La magnesia usata come digestivo era ricavata dalla frantumazione della roccia dolomitica con una macina alimentata ad acqua, come in un mulino: quindi la polvere veniva calcinata nei forni con un processo industriale a turno continuo (come nelle calchere). “Tracce materiali labili scrive Donato Riccadonna, ma i percorsi della memoria che di tanto in tanto riaffiorano sono ben presenti. Nostro compito è di non dimenticarlo. Mai”. (c.g.)


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