da "Senti le rane che
cantano"
La tragedia della Val di
Genova
Il 12 ottobre del 1950 in
Val di Genova, dove si sta lavorando ad una galleria che serve a convogliare le
acque di uno dei rami del Sarca agli impianti idroelettrici che sono in
costruzione nel Trentino occidentale, scoppia una mina in anticipo: a morire
sono in sei. La ditta colpita dalla tragedia è la SISM, la Società
Idroelettrica Sarca-Molveno, concessionaria delle derivazioni d’acqua del fiume
Sarca e del lago di Molveno. Questa impresa, nei cui cantieri si svolgerà buona
parte dell’attività sindacale di Rino Battisti, a partire dagli anni ’40 aveva
iniziato la costruzione di una vasta rete di cunicoli e gallerie che
raggiunsero la lunghezza complessiva di 50 chilometri. Lo scopo era quello di
imbrigliare la forza del fiume Sarca nella complessa opera di svuotamento e di
regolazione delle acque del lago di Molveno e lo scavo in roccia dell’enorme
caverna della centrale elettrica di Santa Massenza. La storia della SISM è
costellata da numerosi incidenti mortali, 33 in tutto, una lunga scia di sangue
che inizia nel 1948 e termina nel 1960, tra i quali uno dei più drammatici è
proprio quello del 12 ottobre 1950 in Val di Genova. All’origine del disastro
pare vi fosse stato l’uso di nuovi tipi di detonatori elettrici, forse
difettosi, utilizzati per innescare l’esplosione d’una volata di mine nella
finestra della «Prisa di Carisolo» della galleria di derivazione dal Sarca di
Val Genova al lago di Molveno. Un incidente dunque non da attribuire alla
fretta con la quale avvenivano solitamente le esplosioni delle mine, che molto
spesso portavano alla morte dei fuochini, ma al materiale difettoso. A morire
non sono solo degli operai, ma anche un ingegnere, il dottor Giuseppe Biasioli,
38 anni, veronese d’origine. Con lui periscono, come su un campo di battaglia,
Antonio Giacoma-Bottalat, 50 anni, assistente tecnico, residente a Castelnuovo
Nigra, in provincia di Torino; Albino Franzinelli, 41 anni, capo minatore
residente a Molina di Ledro; Carlo Roggeri, 58 anni, fuochino, residente a
Gazzaniga in provincia di Bergamo; Bortolo Rossi, 37 anni, di Castione
Presolana, anch’egli bergamasco e infine Umberto Soranzo, ventisettenne
autista, residente a Castello di Fiemme. Sei nomi e sei provenienze, sei età e
sei professioni che ci dicono molto, ancora una volta, della composizione
variegata dei lavoratori presenti sui cantieri idroelettrici trentini: tra i
sei morti, solo due sono trentini, gli altri provengono da province vicine. Nei
sette incidenti mortali avvenuti tra il marzo del ’48 e l’11 ottobre del ’50
che precedono quello avvenuto in Val di Genova, tra le vittime anche un giovane
di 24 anni di Rocca di Cambio, in provincia dell’Aquila, Gesualdo Ottaviani,
morto il 17 gennaio del 1950 sotto una frana in una galleria in Val d’Ambiéz, a
ricordare la presenza in Trentino di tanti lavoratori del Sud64. I nomi di
tutti coloro che perirono, ormai sepolti dal tempo, sono i nomi di chi diede la
vita in cambio di un lavoro; forse risuonano ancora negli echi di quelle
strette vallate o nelle gallerie ormai invase dall’acqua. In occasione
dell’incidente in Val di Genova Sisinio Tribus si fa giornalista e racconta con
partecipazione il dramma di un’intera valle:
«Le
sei salme vennero portate sulle barelle nella cappella di S. Vigilio, al
cimitero, dai compagni di lavoro. Poi, la notizia che correva veloce sui fili
del telefono, dal ticchettio dei telegrafi, ai giornali, nelle vallate, nelle
città, portando orrore e sgomento e dolore. Poi la veglia notturna alle salme,
l’ultimo addio dei minatori, di tutti i minatori della valle, il saluto dei
bimbi, saluto innocente fatto con pochi fiori di campo, il saluto delle donne
della Rendena, nei loro abiti neri delle grandi occasioni, lo strazio dei
parenti. Una marea di gente sostava ai margini della strada polverosa, in
attesa che le sei bare uscissero dalla cappella, portate a spalla dai
minatori.»
Nessun commento:
Posta un commento