IL PRINCIPE VESCOVO E LE
COMUNITÀ DI VALLE: L’ESEMPIO DELLA VAL DI LEDRO (1159)
La strategia adottata dal
principe vescovo di Trento per costruire la propria sovranità nel territorio
del principato vescovile, attraverso accordi e pattuizioni con le forze sociali
e politiche radicate in loco, è diversificata da caso a caso. Rispetto a comunità
politicamente importanti, come quelle che riuniscono in una sola realtà diversi
comuni di una intera vallata, il vescovo manifesta una particolare prudenza ed
è incline a delegare al massimo le sue prerogative sovrane. È quanto accade
alla più importante comunità di valle trentina, quella della val di Fiemme, ma
analogamente anche ad altre realtà del territorio trentino. Così ad esempio,
alla comunità della valle di Ledro, all’estremo confine occidentale del
principato e della diocesi: il vescovo Adelpreto sottoscrive con esso un
accordo in cui viene concessa innanzitutto l’essenziale prerogativa
dell’amministrazione della giustizia. Il luogo di stipula è ancora una volta
Riva del Garda, l’anno il 1159.
«Al la presenza di costoro
Adelpreto vescovo della Chiesa trentina, con un legno che teneva in mano,
liquidò agli uomini di Ledro i diritti sul placito di san Martino e su quello
di Pasqua con questo patto: che gli uomini di Ledro debbano ogni anno dare al
vescovo o ai suoi successori sul mercato di Riva 50 arieti e 4 vacche e 75 lire
di denari veronesi; al mercato di sant’Andrea 75 lire e 20 arieti e 2 vacche e
2 maiali, senza alcun inganno».
I «placiti di san Martino e
di Pasqua», dunque in autunno e in primavera a distanza all’incirca di sei
mesi, sono le assemblee giudiziarie: le due sole occasioni, lungo tutto l’anno,
nelle quali l’autorità pubblica – nel nostro caso, il vescovo – si trasferiva
in loco e amministrava la giustizia nelle materie penali più gravi. Erano
occasioni che costituivano anche – per ambedue le parti, il signore e i sudditi
– una rassicurante conferma della sovranità. Orbene, il vescovo Adelpreto
rinuncia anche a questa sua prerogativa, di fatto sancendo implicitamente un
pieno autogoverno di questa comunità. In effetti la deliberazione successiva è
pienamente conseguente. Con la rinuncia del vescovo, si è creato in sostanza un
vuoto di potere, un’assenza di giurisdizione: e allora
«se sarà commesso qualche
adulterio o omicidio o si constaterà qualche matrimonio fra consanguinei, debba
essere fatta giustizia sotto il p[otere?] dei villici episcopali, o sotto il
potere del visdomino o dell’arcidiacono a spese di colui che ha recato offesa,
senza altri inganni. Quanto al servizio, dovranno corrispondere 150 lire al
vescovo e 50 alla curia dei vassalli; e se avranno dato un uomo, si dovrà
scalare la somma corrispondente alla quota di costui».
La bilateralità del patto,
che formalmente si presenta come una concessione ‘graziosa’ del vescovo, è
particolarmente evidente dalle clausole finali . Gli attori stabiliscono
vicendevolmente come penalità che se uno dei due contraenti avrà derogato da
questo accordo e patto, oppure non lo avrà osservato in tutto e per tutto come
è scritto di sopra, allora la parte colpevole paghi alla parte rispettosa dei
patti 200 lire veronesi di buona moneta.
G.M.V.
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