domenica 1 dicembre 2013

Collotta e Cis, Candido




storie:

CANDIDO
(la Collotta-Cis della val di Ledro e l’amianto)

Bussai alla porta e si affacciò un vecchietto piccolo piccolo dai capelli bianchi. Con gli occhi vivaci di un ragazzino attento a tutto ciò che gli succedeva attorno mi fissò un attimo e, prima ancora che potessi aprire bocca, disse: «Caro dottore, la aspettavo».
Come sapeva che sarei andato da lui? La mia decisione di fargli visita era solo di qualche minuto prima, quando nel municipio di Molina di Ledro mi avevano dato il suo nome, Candido Zendri, messo comunale in pensione, come di una persona che poteva aiutarmi a ricostruire la storia della “Collotta-Cis” e di chi in quella fabbrica aveva per quasi cinquant'anni lavorato le pericolose fibre di amianto.
Era la primavera del 1977 e nella zona del Garda trentino la medicina del lavoro aveva iniziato la propria attività solo da qualche mese. Già però mi erano giunti segnali ripetuti e non sempre ben decifrabili, velati di paura e di voglia di incognito, che in quel comune della Val di Ledro e in quell'unica fabbrica c'era qualcosa che non andava: i lavoratori morivano in gran parte giovani «di tumori e di polmoni», mi dicevano, e la gente aveva paura.
Avevo così deciso di andare a verificare di persona sul posto se quel sentito dire potesse corrispondere alla verità o se invece fosse solo frutto di fantasia o di suggestione collettiva. Ma per fare questo avevo bisogno di raccogliere dati e soprattutto di conoscere i nomi di chi aveva lavorato in quella fabbrica per impostare uno studio di mortalità.
«E' stupito perché le ho detto che l'aspettavo?» continuò, vedendomi titubante. «Certo, come potrebbe essere altrimenti, non ci conosciamo...». «Questo é vero solo in parte» ribatté‚ con un sorriso tra il soddisfatto e l'arguto. «Lei non mi conosce, ma io la conosco bene e proprio per questo ero certo che sarebbe venuto da me».
Mi fece entrare. Lo seguii per la scala di quella vecchia casa fino ad una stanza al primo piano rivolta a sud, piena di erbe e foglie in parte già essiccate, in parte ancora stese al sole.
«Deve sapere», mi disse entrando in quella stanza che doveva essere anche il suo laboratorio e la sua biblioteca, «che io non ho molta fiducia nei medici, con tutto il rispetto per la sua professione, perché vogliono far guarire tutti quanti in tre giorni e poi in realtà li ammalano con le loro medicine miracolose ma altrettanto pericolose. Io mi curo, e aiuto tutti quelli che vengono a curarsi da me, con quello che mi da il bosco, con le erbe, le piante. Non ci metto tre giorni ma trenta, però quando riesco a far guarire sono anche certo di non aver fatto ammalare nessuno».
Affascinato da quel vecchietto che mi mostrava le erbe, descriveva le loro proprietà, sfogliava antichi libri sulle possibilità curative dell'acqua bevuta a piccoli sorsi, mi ero quasi dimenticato del motivo che mi aveva portato in quella casa. Ci pensò lui a ricordarmelo: «Lei non è venuto qui per questo, ma per qualcosa di più importante, se non sbaglio» disse, rimettendo al loro posto libri e foglie e avvicinandosi piano piano ad un tavolo.
Aprì un cassetto e ne tirò fuori con delicatezza e attenzione qualcosa che per lui doveva essere molto preziosa. Era una teca di cartoncino beige che aprì e dalla quale con mio stupore cominciò ad estrarre ed a mostrarmi, uno alla volta, tutti gli articoli ben ritagliati e catalogati che erano usciti sui giornali locali e che descrivevano il nuovo servizio di medicina del lavoro, i primi difficili passi, le difficoltà che incontrava, le lotte dei lavoratori per la difesa della loro salute.
«L'ho conosciuta così» disse, mostrandomi articoli e foto, «e devo dire che ho molta fiducia in ciò che può fare il suo ufficio. Quanto a lei, non ha certo scelto un lavoro facile. Ci vuole coraggio per fare queste cose, ci vuole qualcosa dentro, ed è per questo che, leggendo questi articoli, mi sono convinto che prima o poi lei sarebbe venuto a vedere cosa succede in questo posto dimenticato da Dio e dagli uomini e sarebbe passato anche da me».
Di fronte a un tale complimento rimasi silenzioso e quel vecchietto, per togliermi dall'imbarazzo, continuò: «Ma questo non è tutto, ho una bella sorpresa per lei». Dalla stessa teca estrasse con cura altri fogli che mi porse con evidente soddisfazione e una punta di orgoglio. Erano scritti a mano e contenevano in bell'ordine una lunga lista di nomi. «Questa è tutta gente che ha lavorato l'amianto in quella fabbrica. Me li ricordo uno per uno e, se chiudo gli occhi, me li vedo ancora davanti, bianchi di polvere, bruciati dal calore, come li vedevo quando per il mio lavoro dovevo entrare in quello stabilimento. Poveretti, hanno sgobbato come bestie per una pagnotta e per portare a casa un piatto di minestra per i figli e poi sono morti così giovani o sono andati incontro ad una vecchiaia, quando ci sono arrivati, piena di dolori e di asma. Tra questi nomi c'è anche quello di mio fratello. Non ha fatto una bella morte».
Si fermò per un istante a fissare la parete di fronte come guardasse scorrere un film che solo lui poteva vedere. Poi, come per scusarsi, continuò: «Caro dottore, in questa lista non ci sono tutti, ma ho fatto tutto quello che ho potuto finché la mia memoria, che non è più quella di una volta, mi ha sorretto. Ora tocca a lei».
Mi offrì qualcosa, mi raccontò di quegli anni in cui l'alternativa al lavoro massacrante in fabbrica era la valigia con lo spago dell'emigrante, quando la fame abitava in ogni casa, quando la paga arrivava con mesi di ritardo e con essa il pane per intere famiglie, quando per questo motivo un lavoratore che si era lamentato con i compagni che non aveva di che sfamare i figli il giorno di Natale si ritrovò licenziato proprio la vigilia del giorno di festa, quando nessuno poteva alzare la testa e protestare perché gli veniva mostrato il cancello davanti al quale c'era una lunga fila di persone in attesa di lavoro e pronte a sostituirlo. Mi parlò del primo sciopero e del licenziamento di decine di scioperanti. Continuò a raccontarmi della sua amata terra, della sua gente, delle gioie e delle sofferenze che lui, casa per casa, aveva visto in tanti anni.
Il nostro primo incontro era finito. Accompagnandomi alla porta mi sussurrò, quasi temesse che qualcuno dalla strada lo potesse sentire: «Vada avanti, non si fermi, mi raccomando. Lei viene dalla città e forse non capisce i problemi di una valle di montagna, ma questa gente ha bisogno di sapere e soprattutto ha bisogno di qualcuno che la aiuti».
Ci stringemmo la mano, avevo voglia di abbracciarlo. Quasi volesse portare una nota finale di spensieratezza ad un incontro che era stato per ambedue così coinvolgente dal punto di vista umano, e per me anche professionale, e per darmi l'augurio di un arrivederci, aggiunse: «Se il suo difficile lavoro, se questa ricerca, come temo, le creerà qualche problema e qualche ansia, si curi pure da solo se vuole, ma se ha bisogno di me io sono sempre qui con le mie erbe».
Tornai a trovarlo alcuni anni dopo. Lo studio aveva confermato che le decine di morti da lavoro in quella fabbrica non erano frutto di fantasia. Mi diede delle foglie di melissa, che aveva raccolto con le sue mani, assicurandomi che erano ottime per combattere lo stress e l'ansia.
Candido oggi ha 93 anni. Abita ancora in quella casa di Molina, in Val di Ledro, nel Trentino, tra i suoi boschi e le sue erbe miracolose.
(gennaio 1991)

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