mercoledì 25 dicembre 2013

LA SECOLARE AUTONOMIA DELLA COMUNITÀ DI LEDRO


un pò di nostra storia,

Storia della Valle

LA SECOLARE AUTONOMIA DELLA COMUNITÀ DI LEDRO:

LA VALLE DI LEDRO
La Valle di Ledro è un solco vallivo, pensile, quasi ponte naturale fra la Valle del Chiese ad Ovest, e il Bassopiano rivano ad Est. Essa scorre tra le propaggini dei due gruppi montuosi del Catione a Sud e del Cadria a Nord. Geograficamente è situata all'estremo Sud del trentino Sud-occidentale lungo il confine bresciano della Lombardia. Il suo bacino è delimitato dalla linea perimetrale, ben definita dai crinali montani, avente una lunghezza di circa 60 Km., all'interno della quale è racchiusa un'area di poco meno di 160 Kmq. L'intero territorio è ripartito, oggi, tra i sei Comuni di : Tiarno di Sopra, Tiarno di Sotto, Bezzecca, Concei (Locca - Enguiso - Lenzumo), di Pieve (Pieve e Mezzolago), di Molina (Molina, Legos, Barcesino, Prè e Biacesa) per complessivi 4.646 abitanti (dato riferito al 31.12.1992).

LA COMUNITÀ DI LEDRO
Le dodici Comunità di villaggio sopra richiamate, pur avendo avuto momenti storici particolari che le distinsero l'una dall'altra, considerate globalmente ebbero una medesima evoluzione storico-politica, che le accomunò in una unità sociale, economica ed amministrativa variamente denominata, secondo i tempi: ALUTRAENSES (Plinio, ossia: quelli che abitano tra le due ali, le Giudicarle e il Garda), PLEBS LEUTRI (ossia il Popolo di Ledro), RES PUBLICA LEUDRI, COMUNITAS LEUDRI, COMUN GENERALE DI LEDRO.

LA ROMANITA'
Furono i Romani (15 a.C. - 476 d.C.) a dare una prima organizzazione alle popolazioni ledrensi, sparse dapprima sulle alture e sui pendii montani e presentì in loco da oltre due millenni: Liguri, Nordalpini (palafitticoli) e, più tardi (200 a.C), i Galli, gli Euganei, i Veneti... Tutte queste genti furono raccolte in un unico MUNICIPIUM RURALE, designato come Plebs Leutri, ascritto alla tribù Fabia, ossia alla circoscrizione territoriale del MUNICIPIUM di Brescia. Pertanto gli Alutraenses furono "cives romani ", uomini liberi, con diritto di assoluta proprietà dei beni compresi sul loro territorio (res publica habentes). Il Municipium aveva la propria sede amministrativa a Locca (lat. : loca -orum) che, nel linguaggio amministrativo romano indicava il grado del sito, ossia: capo dei luoghi. Qui risiedeva la massima autorità civile: il Rector Locorum, con funzioni amministrative e civili in genere, probabilmente eletto dai valligiani, tra le persone ritenute le più idonee. Invece il CASTELLUM (topon. Castel, a Tiarno di Sotto) era la sede del potere romano, cioè della Centuria (100 uomini) al comando del Centurione, che aveva funzioni militari, fiscali e giudiziarie. Con le invasioni barbariche (450 - 553), venne meno la forza romana e le genti di Ledro dovettero difendere comunitariamente i passi della Valle. Il pericolo comune consolidò ulteriormente il vincolo sociale, per il quale le popolazioni guadagnarono in autonomia ed indipendenza.

I LONGOBARDI
I Longobardi entrarono in Valle nel 569, in qualità di "hospites ". Durante i due secoli della loro permanenza si convertirono al cattolicesimo grazie alla loro regina Teodolinda ed imposero il cattolicesimo come unica religione di stato (Liutprando) ed infine, il re Astolfo promulgò la "parità delle stirpi ". Latini e Longobardi si fusero con matrimoni dando luogo ad una nuova etnia. Così, nel 774, quando Carlo Magno, futuro fondatore e imperatore del Sacro Romano Impero, vinse l'ultimo re longobardo, Desiderio, trovò in Valle una popolazione omogenea per lingua, usi, costumi e religione. Anche il diritto romano si fuse con quello longobardo (Rotari) e diede origine al "diritto romano-barbarico "che, presso le nostre popolazioni ebbe vigore fino agli inizi del XIX secolo e, per certi versi, si protrasse fino al secolo presente, particolarmente in taluni usi rurali.

VICI E VICINIE
Tra gli insediamenti più antichi della Valle di Ledro che diedero origine ai VICI (dal lat. vicus = villaggio, abitato agricolo. "Vicini" erano sia gli abitanti di un medesimo paese che gli abitanti di un paese vicino. "Vicinia" era un'intera comunità di villaggio che condivideva beni comuni con un'altra vicinia), ricordiamo : Legos, Barcesino, Pieve, Locca, Enguiso, Lenzumo, Tiarno di Sotto e Tiarno di Sopra. Di formazione più recente (XI - XII sec.) sono Bezzecca e Molina. Anche Pregasina, che dal 1959 fa parte del Comune di Riva, è di origine gallica. A mano a mano che si vennero costituendo i "vici", l'unità territoriale del "Municipium rurale ", un tempo proprietà di tutti e di nessuno, ebbe un primo frazionamento. Ciascun "vico " ebbe la sua parte di territorio, circoscritto all'abitato, costituito per lo più da pascoli, gaggi, fratte con i relativi digressi, ma ebbe anche terreni della stessa natura che, per antica tradizione, aveva usato in comune con altra o altre "vicinie". In quest'ultimo caso, due o più vicinie si incontravano ogni anno per determinare e "regolare" l’ uso dei beni comuni, dando origine a taciti compromessi, in conseguenza dei quali, verso il Mille, troveremo in Valle unioni di due o più comuni di villaggio, dette "REGOLE" e poi "CONCEI". Ma non tutti i terreni furono divisi tra le vicinie. Rimasero beni comunitari, gestiti dal "Municipium rurale", i boschi, le malghe, le acque, le cave di sassi e di ghiaia ecc. che, nel loro insieme, formavano quello che oggi diremmo il demanio della Comunità ledrense e che allora erano detti "INDIVISI". Insieme alle proprietà vicane erano sorte anche proprietà private : ricordiamo il testamento del vescovo veronesi, Notecherio che, nel 927, ricorda le sue proprietà in quel di Tillarno (Tiarno), paese ricordato in altri documenti del 26 feb. 845. Contemporaneamente i "vici" vennero organizzandosi anche sul piano amministrativo: regolavano l'uso dei beni comuni distinti in : "DIVISI", quelle terre che venivano affidate a lotti (parc, piardei) a singole famiglie, per un ordinato sfruttamento (gac) e per trasformare pascoli o tratti di bosco in campi (fratte). I "divisi", a lungo andare, formeranno la proprietà privata ; e "INDIVISI", tutte le altre terre che costituivano il patrimonio del comune di villaggio. Regolavano lo sfruttamento della caccia e della pesca, badavano affinché i confini fossero rispettati e determinavano le località utili al pascolo delle pecore e delle capre. Già in epoca longobarda tutti i vici, riuniti per capifuoco (ossia i capifamiglia che rappresentavano la famiglia intesa nelle sue diramazioni), eleggevano lo SCARIO, sostituto del Rector Locorum e lo SCULDASCIO o CENTENARIO, in sostituzione del centurione romano e posto a capo dei CENTENERI, gruppo di militi formanti la Centena (la romana Centuria), dislocati per gruppi in quelle località chiamate ancora oggi "Castel" (Molina, Lenzumo), ossia i castellieri di origine gallica (torri di guardia) eretti a difesa dei principali accessi alla Valle. Tali sistemi, amministrativo ed elettivo, furono conservati e protetti dallo stesso Carlo Magno e si protrarranno nei secoli. Già in epoca carolingia il capo del comune di villaggio era detto CONSOLE (a ricordo della Roma repubblicana).

IL COMITATO TRENTINO E LA MAGNIFICA COMUNITÀ DI LEDRO
Nel 1004 il Trentino fu eretto a COMITATO (Contea) del Sacro Romano Impero dall' Imperatore Enrico II il santo e, nel 1027, l'Imperatore Corrado II il Salico donò la contea al vescovo Udalrico II (1022 -1055) e ai suoi successori. Da allora il vescovo di Trento rivestì anche il titolo di principe del Sacro Romano Impero ed ebbe nelle sue mani il potere spirituale e quello temporale. In tale occasione le terre di Ledro che, fin dal 836 avevano fatto parte del regno di Berengario del Friuli, con capitale Verona, furono aggregate nuovamente al Trentino, insieme con Riva, le Giudicarle. Tignale, Valvestino e Bagolino. Infine, nel 1111 -12, durante le lotte tra guelfi e ghibellini, il principe vescovo Gebardo, dopo aver eretto a Magnifica Comunità la Valle di Flemme, fece altrettanto della Valle di Ledro e di altre Comunità per assicurarsi l'appoggio delle vallate nella lotta contro la città di Trento, ribellatasi.

NUOVE CONFORMAZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE
A partire dal XII sec. l'assetto politico-amministrativo della Valle assunse una nuova fisionomia. Già alla fine del regno longobardo, lo "sculdascio" era stato sostituito dal Gastaldo imperiale che dipendeva dal JUDEX, capo militare della judicaria Summalaganensis e la Valle divenne allora una GASTALDIA. Quando il Trentino fu eretto a CONTEA la Comunità di Ledro ebbe il GASTALDO vescovile, il cui compito era quello di raccogliere i tributi, le tasse e di dirimere le cause giudiziarie di un certo livello. Anche i Comuni di villaggio ebbero una nuova conformazione: a capo di essi vi era il CONSOLE (talvolta due), che veniva eletto dalla cittadinanza. Egli rimaneva in carica per un anno e il suo servizio era obbligatorio e gratuito. Tutti i capifuoco, a turno, erano tenuti ad assolvere questo dovere. Il Console era assistito da un CONSIGLIO formato da quattro persone. C'era poi il SALTARO che fungeva da messo comunale, da guardia campestre e forestale, mentre il MASSARO era il cassiere. Nei casi di necessità veniva eletto, per il tempo necessario, il SINDICO o PROCURATORE, che rappresentava il Comune nelle cause giudiziarie e anche le vedove con figli. Un NOTARO fungeva da segretario. I Comuni di villaggio furono sempre autonomi nell'amministrare i loro beni, di disporre di essi, di progettare opere e di effettuare pagamenti. Erano invece legati all'osservanza delle REGOLE di Concel e del Comune Generale, concordate nell'assemblea comunitaria una volta l'anno. Dovevano rispettare le tradizioni orali sul comportamento civile, sociale ed economico-politico che, dopo il 1200 verranno raccolte e messe per iscritto e formeranno gli ORDINI della Valle di Ledro, i quali venivano sottoposti al visto del principe vescovo, perché assumessero valore di LEGGE. Infine, in campo giudiziario i comuni dovevano riconoscere validità ed efficacia agli STATUTI della Valle di Ledro, ossia ai CODICI CIVILE E PENALE, anch 'essi derivanti dalla tradizione orale.

I CONSEI o CONCEI
Questa denominazione compare dopo il XII sec. e pone in evidenza l'avvenuto consolidamento degli usi relativi allo sfruttamento dei beni di proprietà di due o più Comuni di villaggio (vicinie). Il CONCEL non fu mai un'entità politica come, ad esempio, il Comune di villaggio, ma il risultato dei rapporti e delle "regole", che vincolavano le "vicinie" interessate. Infatti gli organi del Concel (dal lat. Concilium = Consiglio) erano gli stessi Consigli dei Comuni di villaggio. Questi si riunivano una o più volte all'anno per deliberare l'uso dei beni comuni e per determinare lo sfruttamento di nuovi terreni. Apprendiamo, da vecchie pergamene, che il Concel dei due Tiarno teneva le sue riunioni una volta a Tiarno di Sopra "sul pont de mez" e la successiva a Tiarno di Sotto "sul mur del zimitèri". Tutti i Consigli (Concei) della Valle poi, si riunivano annualmente anche per deliberare intorno agli affari dell' intera Magnifica Comunità. La località dove essi convenivano assunse l'appellativo di "I CONSEI", da cui l'odierno toponimo di VALLE DEI CONCEI, dove Locca (loca) era appunto il Capoluogo ledrense. Uguale denominazione rinveniamo anche sulla vecchia strada fra Arco e Varignano. Il luogo, denominato "I CONSIGLI", è ancora segnato da un grande cippo, coperto da una lastra di pietra, attorno al quale convenivano i Consigli di Arco e di Romarzollo.
I CONCEI di Ledro furono quattro: 1) Tiarno di Sopra e Tiarno di Sotto; 2) Locca, Enguiso, Lenzumo, Barcesino e Prè; 3) Bezzecca, Pieve e Mezzolago; 4) Molina, Legos, Biacesa e Pregasina. PIEVE, CAPOLUOGO DI LEDRO: dopo l'istituzione della Magnifica Comunità (patti gebardini) il capoluogo della Valle fu trasferito a Pieve, dove, fin dal VII-VIII sec, era sorta la "PARROCCHIA DI S. MARIA DELLA VALLE", che servì l'intera comunità ledrense, ossia la PLEBS LEUDRI, da cui il nome di Pieve, indicante sia il paese che la chiesa, e quello di "Pievano" dato al Parroco. Pieve, dunque, oltre che centro spirituale, divenne anche sede amministrativa e giudiziaria della Valle.

IL GOVERNO DI VALLE
Era eletto ogni anno dai Concei. Venivano nominati da prima i dodici Consiglieri giurati (tre per Concel). Essi erano scelti tra gli "homini li più idonei e sufficienti et atti a far, e girar il vicariato e tener governo di questa Comunità e Repubblica " (Ordini). Spettava ai Consiglieri giurati la nomina del capo-comun-generale, non più detto Scario, ma VICARIO, perché oltre che amministrare la "res publica", faceva anche le veci del principe vescovo, soprattutto nelle controversie giudiziarie: decidendo e sentenziando sulle cause minori ed assistendo il gastaldo nelle udienze civili maggiori e in quelle penali, che si celebravano "ad banchum ubi jus dicitur", in Pieve. Il Vicario, dovendo rappresentare la Valle di fronte all'autorità, doveva essere scelto col maggior scrupolo tra le persone più sagge e dotte della Valle, per cui i Consiglieri eletti, prima di passare alla sua nomina, si recavano nella chiesa di S.Maria per assistere ad una solenne funzione, onde essere illuminati nel gravoso compito. Completavano l'organico dell'Ufficio: il segretario o Notaro; i Massari, in numero di due :"uno da S. Vigilio in suso e l'altro da S. Vigilio in zozo "che, tra l'altro, dovevano "curar li negozi e bisogni della chiesa di S.Maria"; gli Stimadori, che ogni "diese o dodese anni" stimavano i beni privati e comuni, ricavandone il Libro Fondiario. In conseguenza dei privilegi goduti dalla Comunità di Ledro, libera ed autonoma, salvo il visto vescovile, di governare il proprio DISTRETTO territoriale e di amministrare la GIUSTIZIA, i Ledrensi erano citati, in documenti ufficiali, come "HOMINES DE PLACITU (ossia: sentenza giudiziaria) ET DISTRICTU. " Questa, dunque, l'organizzazione politica della Valle che, a partire dal XII secolo, si manterrà pressoché inalterata fino al 1803, quando l'Austria abolirà tutte le autonomie ed i privilegi e darà origine alla nuova conformazione dei Comuni, retti da un Sindaco, da una rappresentanza (Consiglio) e da una Deputazione (Giunta), per complessive 13, 15 persone. VICENDE Durante i secoli non sempre le Genti di Ledro poterono godere pace e tranquillità. Ricordiamo i fatti più salienti. Nel 1323, la Comunità fu in lotta armata contro lo stesso principe vescovo a causa delle rilevanti tasse, taglie, tributi. Nel 1350, l'intera Valle fu data in pegno per 4000 fiorini agli Scaligeri di Verona, che la tennero fino al 1388, quando divenne proprietà dei Visconti fino al 1402. Nel 1405 la Valle fu riscattata, dietro pagamento di 6000 fiorini, dal principe vescovo Giorgio di Liechtenstein e tornò a far parte del principato e diocesi di Trento. Nel 1426, dopo dure lotte, la Valle fu presa dai Veneziani, dai quali ebbe un trattamento di riguardo; fu protetta e difesa contro le mire dei conti Lodron e fruì di numerosi privilegi. Per i Ledrensi fu il periodo più florido e felice. Tornata a far parte dell'Impero (1509), la valle fu consegnata al principe vescovo dall'imperatore Massimiliano I (1511), il quale, con il famoso "LIBELLO dell' UNDICI" (1511) regolamentò anche i volontari "DIFENSORI TERRITORIALI" (Landschutzen) dell'intero Trentino e Alto Adige. Anche il piccolo esercito ledrense fu riorganizzato e sul finire del Settecento formerà le compagnie dei "BERSAGLIERI", che tanta parte avranno nelle lotte dell'Ottocento. Il secolo più oscuro e triste fu il Seicento, che trascorse tra pesti, carestie, roghi di streghe (la nostra gente ne fu esente), tra usure ed altri malanni, per concludersi, nel 1703, con l'invasione delle truppe di Vendome (Guerra di successione spagnola 1700-1714), che recarono morte e distruzione ad interi paesi. Durante il secolo di Maria Teresa (1717-1780), la Comunità di Ledro ebbe benessere generale: l'industria ferriera e la bachicoltura portarono lavoro e attivo commercio, sostenuti anche dall'artigianato dei cappelli di feltro e dall'allevamento del bestiame. Nel 1796 iniziò un nuovo periodo di gravosi sacrifìci: la valle fu percorsa da truppe napoleoniche e da truppe austriache. Un andirivieni che impoverì la gente e i Comuni. Nel 1806 fu aggregata al regno bavarese fino al 1809, e dovette subire gli effetti della rivolta capeggiata da Andrea Hofer, alla cui morte (1810) fu aggregata, con tutto il Trentino, al regno italico. Sconfitto Napoleone (Lipsia 1813), il Trentino tornò all'Austria e rimarrà sotto il dominio di questa fino alla fine della Prima Guerra Mondiale (3 nov. 1918). Tornati gli Asburgo, il Trentino riebbe una parvenza di autonomia, per la quale la Valle di Ledro ricostituì il COMUN GENERALE e la PRETURA. Ma ormai i Comuni di villaggio, cadute le vecchie istituzioni consolari, e conformati con criteri più moderni, acquisirono sempre maggior autonomia e indipendenza rispetto al Comun Generale, la cui attività spesso interferiva con quella delle singole amministrazioni comunali, sollevando frequenti proteste di competenza. Ciò nonostante, il Comun Generale ormai ricordo di un passato potere repubblicano, vivrà fino all'annessione del Trentino all'Italia (9 agosto 1920). Intanto, durante l'Ottocento, la gente di Ledro, tra nuovi malanni (colera, tubercolosi, pellagra, ecc.) e il terrore del vaiolo, dovette assistere ai fatti d'arme del Quarantotto e del Sessantasei (21 luglio, Bezzecca), ma partecipò anche all'opera benemerita della costruzione della nuova strada del Ponale (Giacomo Cis, 1851) che, insieme con quella dell' Ampola aprì la Valle al mondo circostante. Infine, la PRIMA GUERRA MONDIALE costrinse le Genti di Ledro al duro esilio in Boemia e Moravia: partite tra il 22 maggio e il 2 agosto 1915, ritornarono alla fine del 1918 e agli inizi del 1919, dedicandosi subito alla ricostruzione dei paesi, gravemente danneggiati dalla guerra combattuta sul fronte ledrense. Col passaggio del Trentino all'Italia, furono soppressi in Valle , la Pretura e il Comun Generale e di conseguenza si sciolse, "in materialibus", la vetusta Comunitas Leudri, che rimarrà frazionata nelle piccole comunità. Queste, durante il fascismo, furono variamente aggregate a formare i MUNICIPI, retti da PODESTÀ', spesso forestieri. Tale situazione permarrà fino alla fine della SECONDA GUERRA MONDIALE, quando con nuove democratiche aggregazioni sorgeranno gli attuali sei Comuni. Ma fin dal XII sec. le tredici popolazioni ledrensi erano tra loro legate anche da un vincolo "in spiritualibus", per il quale avevano formato l'unità parrocchiale della"PIEVE DI S. MARIA DELLA VALLE". Quando nel 1935 la Parrocchia fu eretta a Decanato, le chiese curaziali della Valle divennero parrocchie, i Comuni-parrocchia, sempre più indipendenti dalla Chiesa Madre, sul finire degli anni Cinquanta, dopo essersi riuniti comunitariamente per l'ultima volta, deliberarono la LIBERALIZZAZIONE da tutti gli impegni, oneri e doveri, che li legavano alla PIEVE da ben dodici secoli. Cessava così anche il vincolo spirituale, ultimo simbolo dell' unità di Valle. Finiva, in tal modo, l'antica Repubblica, la Magnifica Comunità di Ledro.

CAMMINAMENTI DI GUERRA

L'itinerario per i camminamenti della guerra 1914-1918 attraverso i crinali della Rocchetta, Cima d'Oro, Bocca di Trat, Tofino, Dosso della Torta e Gavardina.


Questo tratto di sentiero costituisce anche un tratto del "Sentiero della Pace". A partire dal Vallone dei Concolì e fino alla Bocca dell'Ussòl il sentiero percorre un crinale tagliato da un unico camminamento e da trincee che uniscono tutte le postazioni della quota, parte scavate nella roccia e parte costruite in cemento armato. Questo formidabile posto fu spesso attaccato dagli italiani. Su di esso arrivavano parecchie teleferiche che dal basso rifornivano le truppe lì dislocate.


Lungo il percorso troviamo residui di baracche e di magazzini (in Val Dromaè, Bocca di Roberto Ribaga
Savàl, Bocca di Trat, Dosso della Torta, Bocca dell'Ussòl), troviamo anche slarghi per postazioni di cannoni o per batterie di mitragliatrici e posti per scelti tiratori (a Cima Parì, Cima d'Oro, Pichèa, Tofino, Dosso della Torta, Gavardina, Bocca dell'Ussòl) in questi punti gli austriaci avevano piazzato gran parte della loro artiglieria e così arroccati dominavano l'intera valle di Ledro e di Concei. 
Si incontrano rovine di casamatte in cemento, caverne-ricovero, depositi vari, stalle per il cambio dei muli delle corvée. Alla Bocca di Savàl si vedono ancora oggi ruderi di numerose baracche, ricoveri, cucine, depositi di ogni genere, infermerie, comandi costruiti dagli austriaci.

Il sentiero-mulattiera passa sotto la Bocca e congiungeva le posizioni fino alla Rocchetta e quelle di Trat fino al Tofino e Bocca dell'Ussòl. Interessante, se vista un po' dall'alto, è la Bocca di Trat: sono ancora ben visibili i camminamenti, le ampie caverne, muri di costruzioni sede di comandi, magazzini, ricoveri. Sulla roccia nuda si vedono dei supporti per le linee elettriche o telefoniche e lamiere cementate nella roccia, resti di tetti di baracche. Si continua fino al Tofino dove la strada si allarga notevolmente e molte deviazioni partono da essa per raggiungere ampi pianori artificiali dove si vedono parecchi ruderi di muro. Qui doveva esserci una guarnigione di uomini piuttosto numerosa. 

L'ultimo tratto di sentiero, dal Dosso della Torta al Gavardina (Ussòl) è attraversato in tutta la sua lunghezza, come i precedenti, da un camminamento con posti per scelti tiratori e che servivano per controllare la valle di Concei e delle Giudicarie. All'Ussòl, appena sotto il crinale verso nord, si notano comode caverne scavate nella roccia, pianori artificiali per l'arrivo delle teleferiche e posti di vedetta in cemento armato. Alcuni anni fa fu posta una croce e nella casamatta eretto un altare - uso cappella - da parte del Gruppo A.N.A. della val di Ledro e delle Giudicarie per ricordare i caduti della guerra 1914-1918 e di tutte le guerre. 

LE TELEFERICHE - Grandiose teleferiche salivano ai vari punti strategici in quota: di grande importanza quella che da S. Giacomo di Riva arrivava a Bocca Savàl con stazioni intermedie a Campi e a malga Grassi, lunga 6100 metri. Dalla stazione principale di Bocca Savàl dei palorci rifornivano le posizioni di Cima Parì; mentre un'altra di m 2300 con partenza da malga Grassi riforniva Cima Sclapa e con partenza da Campi portava a Cima d'Oro con 2250 metri: di qui due palorci di collegamento con malga Dromaé e con i fienili più in basso. Dal Corno di Pichèa partiva la teleferica per passo Magnone, collegata con altra teleferica a malga Pranzo che insieme a malga Grassi costituivano un centro importante per i vari magazzini. 

Dal Dosso della Torta, punto d'unione tra le Giudicarie e Riva, attraverso il Tofino, su cui era sistemato un osservatorio, il tutto era ben attrezzato militarmente con postazioni, trincee ed un osservatorio. Nei pressi del Dosso della Torta partiva una teleferica per malga Nardìs, che a sua volta era collegata con Ballino per mezzo di una strada militare e di una teleferica. Piccole teleferiche univano l'Ussòl al Gavardina; la Bocca dell'Ussòl era anche collegata per mezzo di teleferica con malga Casinotto che era un centro di vita. Da qui si dipartiva un'altra teleferica che lo collegava con il Dosso della Torta, dove esistevano vari elementi di trincee e un appostamento di artiglieria. 


Oggi di tutta l'attrezzatura bellica e logistica che occupava i crinali del sentiero dal Concolì all'Ussòl rimangono ben visibili solo tracce che colpiscono l'escursionista-visitatore per la grandiosità e solidità delle opere, tenendo presente che siamo ai duemila metri di altezza. Da quanto detto risulta come sia possibile trovare lungo il percorso, da Riva del Garda all'Ussòl, opere fortificate della guerra 1914-1918, che possono dare un'idea dell'ampiezza e della solidità della loro costruzione, ma in pari tempo si deve aggiungere che queste opere non sono che ruderi spesso appena riconoscibili per il fatto che negli anni che seguirono la prima guerra mondiale e durante la seconda guerra mondiale, l'estremo bisogno di ferro e perciò il suo alto prezzo, invogliò parecchi valligiani a cercare sui monti ogni più piccolo residuo di tale materiale rappresentato sia da residui bellici quali bombe, armi e reticolati, sia dal ferro contenuto nelle fortificazioni, nelle trincee, quali armature e sostegni delle costruzioni. (da "La Valle di Ledro nella Prima Guerra Mondiale" di Giovanni Fioroni).

https://www.facebook.com/groups/384009025014570/permalink/548819538533517/

domenica 1 dicembre 2013

L'orso






vecchie storie da Folco :

Il 12 maggio 1891 in Val di Ledro fu ucciso un grosso orso maschio del peso di oltre 130 chilogrammi. Fu condotto festosamente a Riva, ove i cacciatori ebbero dall'Autorità la taglia legale, quindi venne spedito ad Innsbruck.

1891:
In seguito ai reiterati lamenti per i danni cagionati dall'orso specialmente nelle valli di Non e Sole, in Giudicarie, in Val di Ledro, ecc. quel ministro di Agricoltura ha assegnato 150 fiorini da distribuirsi in 10 premi di 5 fiorini ciascuno, da darsi all'uccisore di ciascun orso.

La carne dell'orso si mangia, ed i macellai la smerciano a circa 2 lire il chilogrammo [facendo le debite proporzioni 2000 l./kg, calcolando a 1000 lire la lira del principio del secolo, n.d.r.]. I ghiottoni osservano che la parte migliore è la zampa; trattasi però di una carne molto untuosa e di sapore non confacentesi a tutti i palati. Col grasso dell'orso si fanno cosmetici molto in uso per la conservazione dei capelli e come rimedio per la calvizie. Graziosissime signorine non disdegnano di curarsi le morbide chiome con siffatta pomata. Il prezzo di una pelle con la testa e le estremità degli arti intatte è dalle 30 alle 50 lire.

Collotta e Cis. Nessuna traccia di museo ma solo vecchi ruderi


Nessuna traccia di museo ma solo vecchi ruderi
Ex Collotta-Cis a Molina di Ledro; la fabbrica è stata acquisita dal Comune per farne un «ricordo perenne» dei morti di amianto. Ma tutto è fermo
·         amianto
·         collotta & cis
·         storia
Email
·         +
·         -
di Donato Riccadonna

LEDRO. I ruderi e le incompiute spesso sono più significativi delle opere compiute: basta saperli leggere e interpretare. E poi chiedersi perché sono rimasti così e che mondo di cose inespresse c’è dietro. Tanto per dire: quando il dottor Giuseppe Parolari di Torbole, coordinatore della mappatura dell’amianto in Trentino, afferma che sarebbe opportuno fare un museo dell’industria ledrense alla Collotta e Cis di Molina, sappiamo di cosa parla?
Tutto ha inizio con un genio ledrense, Pier Antonio Cassoni, che nel 1816, primo al mondo, produsse in laboratorio il carbonato di magnesio dalla dolomite. Ma non lo brevettò e questa scoperta non lo portò nel ristretto cerchio dei grandi pionieri della chimica e della farmacologia.
Pensate che “solo” nel 1841 il chimico inglese Pattinson brevettò il processo industriale della calcinazione della magnesia, dandogli ovviamente il proprio nome. Ma comunque il Cassoni diede l’avvio ad uno dei primi poli industriali europei di produzione della magnesia. Ma nel 1834 a soli 44 anni muore lasciando incompiuti i grandi progetti.
Toccherà al nipote medico Bartolomeo realizzare il sogno realizzando nel 1845 lo stabilimento industriale di Pieve in località Praisola. Ma il destino tragico si abbatté ancora sui Cassoni: Bartolomeo muore nel 1850 a 40 anni.
La fabbrica di Pieve passa di mano e produrrà fino al 1886, mentre Bernardino Collotta, capo operai di Cassoni, con Giuseppe Cis e Martino Gigli spostò la produzione nella valle dei Mulini a Bezzecca in località Pesten nel 1857 e poi in paese a Molina di Ledro nel 1900. La svolta determinante arrivò nel 1928 con l’introduzione dell’amianto importato dal Sudafrica e la produzione di materiale isolante proseguì fino al 1973.
La fabbrica chiuse i battenti nel 1978 anche per la comparsa sul mercato della lana di roccia e lasciando una lugubre scia di morte con 75 decessi documentati dallo studio di Parolari (uno dei primi a livello internazionale e comunque il primo studio italiano) e attribuibili all’esposizione ad amianto.
A fine anni ’80 venne bonificata l’intera vastissima area e nel 2004 il Comune di Molina di Ledro acquistò l’area con il rudere della fabbrica, con l’intenzione di farne un museo per ricordare questa incredibile vicenda. Ma non si è ancora fatto nulla. Da allora il rudere è lì a Molina a lato della statale da una parte e della ciclabile dall’altra a interrogare le coscienze di chi coltiva i ricordi e vuole giustizia.


Collotta e Cis, Candido




storie:

CANDIDO
(la Collotta-Cis della val di Ledro e l’amianto)

Bussai alla porta e si affacciò un vecchietto piccolo piccolo dai capelli bianchi. Con gli occhi vivaci di un ragazzino attento a tutto ciò che gli succedeva attorno mi fissò un attimo e, prima ancora che potessi aprire bocca, disse: «Caro dottore, la aspettavo».
Come sapeva che sarei andato da lui? La mia decisione di fargli visita era solo di qualche minuto prima, quando nel municipio di Molina di Ledro mi avevano dato il suo nome, Candido Zendri, messo comunale in pensione, come di una persona che poteva aiutarmi a ricostruire la storia della “Collotta-Cis” e di chi in quella fabbrica aveva per quasi cinquant'anni lavorato le pericolose fibre di amianto.
Era la primavera del 1977 e nella zona del Garda trentino la medicina del lavoro aveva iniziato la propria attività solo da qualche mese. Già però mi erano giunti segnali ripetuti e non sempre ben decifrabili, velati di paura e di voglia di incognito, che in quel comune della Val di Ledro e in quell'unica fabbrica c'era qualcosa che non andava: i lavoratori morivano in gran parte giovani «di tumori e di polmoni», mi dicevano, e la gente aveva paura.
Avevo così deciso di andare a verificare di persona sul posto se quel sentito dire potesse corrispondere alla verità o se invece fosse solo frutto di fantasia o di suggestione collettiva. Ma per fare questo avevo bisogno di raccogliere dati e soprattutto di conoscere i nomi di chi aveva lavorato in quella fabbrica per impostare uno studio di mortalità.
«E' stupito perché le ho detto che l'aspettavo?» continuò, vedendomi titubante. «Certo, come potrebbe essere altrimenti, non ci conosciamo...». «Questo é vero solo in parte» ribatté‚ con un sorriso tra il soddisfatto e l'arguto. «Lei non mi conosce, ma io la conosco bene e proprio per questo ero certo che sarebbe venuto da me».
Mi fece entrare. Lo seguii per la scala di quella vecchia casa fino ad una stanza al primo piano rivolta a sud, piena di erbe e foglie in parte già essiccate, in parte ancora stese al sole.
«Deve sapere», mi disse entrando in quella stanza che doveva essere anche il suo laboratorio e la sua biblioteca, «che io non ho molta fiducia nei medici, con tutto il rispetto per la sua professione, perché vogliono far guarire tutti quanti in tre giorni e poi in realtà li ammalano con le loro medicine miracolose ma altrettanto pericolose. Io mi curo, e aiuto tutti quelli che vengono a curarsi da me, con quello che mi da il bosco, con le erbe, le piante. Non ci metto tre giorni ma trenta, però quando riesco a far guarire sono anche certo di non aver fatto ammalare nessuno».
Affascinato da quel vecchietto che mi mostrava le erbe, descriveva le loro proprietà, sfogliava antichi libri sulle possibilità curative dell'acqua bevuta a piccoli sorsi, mi ero quasi dimenticato del motivo che mi aveva portato in quella casa. Ci pensò lui a ricordarmelo: «Lei non è venuto qui per questo, ma per qualcosa di più importante, se non sbaglio» disse, rimettendo al loro posto libri e foglie e avvicinandosi piano piano ad un tavolo.
Aprì un cassetto e ne tirò fuori con delicatezza e attenzione qualcosa che per lui doveva essere molto preziosa. Era una teca di cartoncino beige che aprì e dalla quale con mio stupore cominciò ad estrarre ed a mostrarmi, uno alla volta, tutti gli articoli ben ritagliati e catalogati che erano usciti sui giornali locali e che descrivevano il nuovo servizio di medicina del lavoro, i primi difficili passi, le difficoltà che incontrava, le lotte dei lavoratori per la difesa della loro salute.
«L'ho conosciuta così» disse, mostrandomi articoli e foto, «e devo dire che ho molta fiducia in ciò che può fare il suo ufficio. Quanto a lei, non ha certo scelto un lavoro facile. Ci vuole coraggio per fare queste cose, ci vuole qualcosa dentro, ed è per questo che, leggendo questi articoli, mi sono convinto che prima o poi lei sarebbe venuto a vedere cosa succede in questo posto dimenticato da Dio e dagli uomini e sarebbe passato anche da me».
Di fronte a un tale complimento rimasi silenzioso e quel vecchietto, per togliermi dall'imbarazzo, continuò: «Ma questo non è tutto, ho una bella sorpresa per lei». Dalla stessa teca estrasse con cura altri fogli che mi porse con evidente soddisfazione e una punta di orgoglio. Erano scritti a mano e contenevano in bell'ordine una lunga lista di nomi. «Questa è tutta gente che ha lavorato l'amianto in quella fabbrica. Me li ricordo uno per uno e, se chiudo gli occhi, me li vedo ancora davanti, bianchi di polvere, bruciati dal calore, come li vedevo quando per il mio lavoro dovevo entrare in quello stabilimento. Poveretti, hanno sgobbato come bestie per una pagnotta e per portare a casa un piatto di minestra per i figli e poi sono morti così giovani o sono andati incontro ad una vecchiaia, quando ci sono arrivati, piena di dolori e di asma. Tra questi nomi c'è anche quello di mio fratello. Non ha fatto una bella morte».
Si fermò per un istante a fissare la parete di fronte come guardasse scorrere un film che solo lui poteva vedere. Poi, come per scusarsi, continuò: «Caro dottore, in questa lista non ci sono tutti, ma ho fatto tutto quello che ho potuto finché la mia memoria, che non è più quella di una volta, mi ha sorretto. Ora tocca a lei».
Mi offrì qualcosa, mi raccontò di quegli anni in cui l'alternativa al lavoro massacrante in fabbrica era la valigia con lo spago dell'emigrante, quando la fame abitava in ogni casa, quando la paga arrivava con mesi di ritardo e con essa il pane per intere famiglie, quando per questo motivo un lavoratore che si era lamentato con i compagni che non aveva di che sfamare i figli il giorno di Natale si ritrovò licenziato proprio la vigilia del giorno di festa, quando nessuno poteva alzare la testa e protestare perché gli veniva mostrato il cancello davanti al quale c'era una lunga fila di persone in attesa di lavoro e pronte a sostituirlo. Mi parlò del primo sciopero e del licenziamento di decine di scioperanti. Continuò a raccontarmi della sua amata terra, della sua gente, delle gioie e delle sofferenze che lui, casa per casa, aveva visto in tanti anni.
Il nostro primo incontro era finito. Accompagnandomi alla porta mi sussurrò, quasi temesse che qualcuno dalla strada lo potesse sentire: «Vada avanti, non si fermi, mi raccomando. Lei viene dalla città e forse non capisce i problemi di una valle di montagna, ma questa gente ha bisogno di sapere e soprattutto ha bisogno di qualcuno che la aiuti».
Ci stringemmo la mano, avevo voglia di abbracciarlo. Quasi volesse portare una nota finale di spensieratezza ad un incontro che era stato per ambedue così coinvolgente dal punto di vista umano, e per me anche professionale, e per darmi l'augurio di un arrivederci, aggiunse: «Se il suo difficile lavoro, se questa ricerca, come temo, le creerà qualche problema e qualche ansia, si curi pure da solo se vuole, ma se ha bisogno di me io sono sempre qui con le mie erbe».
Tornai a trovarlo alcuni anni dopo. Lo studio aveva confermato che le decine di morti da lavoro in quella fabbrica non erano frutto di fantasia. Mi diede delle foglie di melissa, che aveva raccolto con le sue mani, assicurandomi che erano ottime per combattere lo stress e l'ansia.
Candido oggi ha 93 anni. Abita ancora in quella casa di Molina, in Val di Ledro, nel Trentino, tra i suoi boschi e le sue erbe miracolose.
(gennaio 1991)

Salute e ambiente di lavoro, Collotta e Cis


per non dimenticare:

L'intervento del Sindaco di Molina di Ledro sul caso Collotta-Cis al convegno “Salute e ambiente di lavoro”:
COSI' AGNESE ROSA RIPERCORRE IL PERIODO DELLA SOFFERENZA

(pubblicato dall' "Alto Adige" il 6 giugno 1984)

RIVA DEL GARDA - Nel corso della recente giornata di studio su “Salute e Ambiente di lavoro”, iniziativa svoltasi al casinò municipale di Arco su organizzazione del sindacato CGIL-CISL-UIL, in collaborazione con il servizio provinciale di medicina del lavoro, il sindaco di Molina di Ledro, Agnese Rosa, ha tenuto una relazione molto interessante sul caso della Collotta-Cis. Accorato e particolarmente sofferto, l’intervento del sindaco di Molina si presenta molto importante anche per la serie di suggerimenti offerti in merito alla bonifica del vecchio stabilimento di Molina di Ledro, chiuso dopo le note vicende.

“Ogni qualvolta il discorso cade sulla ex fabbrica Collotta-Cis, si evoca nel mio spirito il mondo lontano della mia fanciullezza, rivive, sempre nitido, un quadro di ombre e di sfumature, che si mantiene sempre chiaro per le impressioni penose e profonde, sofferte allora, e rimaste incise per sempre nella mia sensibilità. Sono sguardi di sgomento, sono frasi appena sussurrate, permeate di sofferenza rassegnata, sono gesti che preannunciavano situazioni tragiche, che nel tempo trovavano regolarmente una conferma.
“La fabbrica è malsana”. – “Hai visto Vittore, che faccia gialla, che magrezza; ne ha ancora per poco!” – “E Tino, rattrappito dai dolori e immobilizzato sulla sua sedia! E Aldo con tutte quelle pleuriti”. Erano le frasi che i grandi si scambiavano, tra un sospiro doloroso e l’altro; ma che io carpivo avidamente, con un profondo senso di emozione. E guardavo il viso giallo di Vittore, scavato dalla fatica e dal male occulto, che gli scavava dentro.
Così ascoltavo le amichette che, con occhi stralunati, parlavano dei loro papà, ai quali portavano la cena in fabbrica, li vedevano emergere grondanti di sudore, dalla fitta nebbia dei forni, dove il calore era infernale, per uscire a torso nudo, carichi di materiale da depositare fuori; li osservavano uscire e rientrare in continuità, passando, senza alcun riparo, da un ambiente infuocato alle correnti esterne, sempre fortissime e fredde. E tutta quella polvere, così fitta da non potersi riconoscere a un metro di distanza, sotto quel tristemente famoso “bait”, dove si segavano le coppelle di amianto, tra rumori assordanti e correnti d’aria terribili.

Erano quelli anni di fame
Erano quelli anni di fame; di grande fame; durante i quali la valle, stremata dalla miseria, viveva di emigrazione. Le famiglie, appena costituite, si disfacevano, perché gli uomini dovevano cercare all’estero, nelle miniere delle lontane Americhe, quel sostentamento che in valle mancava. Tornavano vecchi, ridotti ad ombre, col piccolo gruzzolo che assicurava la vecchiaia. E in quei tempi di miseria paurosa, la fabbrica Collotta-Cis rappresentava una fortuna davvero incredibile, e coloro che potevano arrivarvi, magari attraverso speciali raccomandazioni, potevano dirsi ultrafortunati! Anche se poi, disagi, sofferenze, fatiche in un ambiente disumano, vessazioni, ricatti, intimidazioni, pagamenti estremamente ritardati, trasformavano in breve i lavoratori in poveri esseri abulici, passivi e sottomessi come un branco di schiavi, pena il licenziamento: com’era accaduto a quei 24 operai, che al primo tentativo di sciopero si erano ritrovati licenziati dalla sera alla mattina, come a quell’operaio che, ridotto alla disperazione, aveva osato chiedere un acconto e aveva perduto il lavoro a causa di un alterco.
Poi avevo visto le mie giovani amiche, che lavoravano in fabbrica, morire una dopo l’altra, di tumore: Anna, che lasciava 4 bambini e che vidi morire tra dolori strazianti. Carmen, Bruna, che lasciava un bambino e si spegneva dopo anni di lotte e di sofferenze atroci. Ma queste morti precoci, che ci lasciavano costernati e ci riempivano di dubbi che ci facevano risalire alle cause ambientali, non ci lasciavano supporre una causa diretta da ricercarsi nel materiale che veniva manipolato con assoluta tranquillità; non si sapeva di manipolare la propria morte con estrema spensieratezza, rifiutando anche la mascherina perché dava fastidio.
Intanto, lo stato di degrado ambientale scendeva a livelli sempre più bassi, senza che nulla mai venisse sperimentato o creato per un miglioramento benché minimo. A poco a poco la fabbrica decadde dal concetto primitivo e cominciò a farsi strada l’idea che troppi gaudenti, inetti e poltroni, volessero vivere sulle braccia dei lavoratori; finché, in un rigido mattino di gennaio del 1978 i lavoratori trovarono sbarrati i cancelli di accesso alla fabbrica.
Il trattamento brutale fece scattare finalmente gli operai, che montarono la guardia e strinsero d’assedio la fabbrica. In quell’occasione, l’Amministrazione comunale di Molina si schierò dalla parte dei lavoratori, li difese da tutte le angherie messe in opera contro di loro, li sostenne giorno e notte, li stimolò continuamente a resistere, finché, dopo mesi e mesi di lotta, vennero loro pagate tutte le mensilità arretrate e anche la liquidazione. Per quel momento era già pronto per i 23 disoccupati della Collotta-Cis, il piano d’intervento della Provincia, sollecitata allo scopo dal Comune di Molina, e tutti vennero assunti in un programma di forestazione, nel quale alcuni permangono ancora.

A prezzo di sofferenze inaudite
Finì così, nel più triste dei modi, quello squallido mondo di lavoro, che aveva dato un pane alla nostra gente, chiedendo come contropartita un prezzo paradossale di sofferenze inaudite e di morti precoci. Su quel mondo si stese il velo del silenzio e dell’oblio, finché un giovane medico ebbe il coraggio di lacerare quel velo, di sondare l’ambiente, di ricercare, di studiare e di mettere finalmente le mani sopra la materia terribile, responsabile di tante morti premature, di tante e tante malattie mai prima riconosciute: l’amianto, la fibra che per anni e anni era sempre stata lavorata e manipolata con tanta incoscienza con estrema superficialità, non conoscendone gli effetti funesti.
E’ merito del dottor Giuseppe Parolari essere penetrato di prepotenza nel mondo oscuro di una lavorazione ritenuta per anni innocua e di avere dato l’allarme; il suo grido d’allarme non si fermò davanti alla minaccia di denunce e di reali denunce che subì per le sue diagnosi, ritenute in un primo momento semplicemente diffamatorie. Per le sue ricerche, sostenute dall’appassionata sensibilità di studioso preparato e coscienzioso, s’è potuto finalmente svelare il mistero delle morti precoci, delle forme tumorali, polmonari e circolatorie, e si è corsi immediatamente ai ripari; e l’asbestosi è diventata purtroppo una parola terribilmente nota.
E’ la risposta a tutti quei “perché”, pieni d’angoscia indicibile, che captavo in un tempo ormai tanto lontano, negli occhi, nelle parole, nei gesti dei grandi, e che si erano incisi per sempre nel mio spirito. E forse sono state proprio queste emozioni penose a far scattare di prepotenza in me, il senso della responsabilità fortissima, che ritengo debba essere alla base della coscienza d’un amministratore, il quale non può non sentirsi pienamente coinvolto nei problemi vitali dei suoi censiti; quali il lavoro, la salute, l’ambiente.
Ho dato al dottor Parolari tutta la mia disponibilità nel tentativo di facilitare quell’opera che ha svolto sulle macerie di un mondo del lavoro per salvare ciò che ancora era salvabile. Abbiamo ricercato insieme tutti gli ex lavoratori della Collotta-Cis, per accertare in essi la presenza dell’asbestosi, mediante visite accuratissime, e per assicurare loro la rendita della pensione prevista per le malattie professionali. Siamo subito intervenuti anche sull’ambiente, per liberarlo dai residui dell’amianto.

Trovarsi nel regno delle ombre
Quando, insieme a lui, sono entrata per la prima volta nel mondo della ex fabbrica Collotta-Cis, ho avuto l’impressione sinistra di trovarmi nel regno delle ombre. Un labirinto di corridoi oscuri, di cunicoli sotterranei, dove l’aria e il sole non erano entrati mai e i piani superiori, aperti a tutte le correnti. Ovunque sfacelo e desolazione; questo era stato il mondo di lavoro della nostra gente. Come primo intervento abbiamo rimosso i cumuli di amianto che ancora vi si trovavano, servendoci di maschere e di tute speciali. L’amianto fu raccolto in sacchi robusti di nailon. Ora resta però tutto un ambiente da bonificare; bonifica, che solo l’Ente pubblico potrà realizzare con mezzi che il Comune non può trovare. Occorrerà asportare accuratamente i residui di amianto, tenacemente abbarbicati sull’orditura lignea dei tetti, sugli assiti, sui tavolati, sui pavimenti, mentre le parti murarie verranno intonacate.
Sarà necessario un intervento particolare di bonifica sulla discarica. Da tempo l’Unità sanitaria locale s’è prefissa il problema d’una bonifica integrale dell’ambiente dell’ex fabbrica Collotta-Cis. Ha richiesto l’intervento di un geologo della Provincia, che ha già individuato tutti gli interventi da effettuare. Nei mesi prossimi ci aspetta tutto un programma di opere da eseguire. Dovrà essere un lavoro meticoloso, come si può arguire dagli intendimenti dell’ente, lavoro che l’Amministrazione comunale di Molina seguirà con tutto l’interesse, passo su passo, al fine di bonificare radicalmente, integralmente, redimendolo, un ambiente, dallo stato del più avvilente degrado in cui s’è venuto a trovare.
Scomparirà così un mondo squallido e desolante, nel quale per troppi anni la nostra gente ha pagato un tributo durissimo, incommensurabile di sofferenza e di morte, per un pezzo di pane e per il quale, ora, l’Ente pubblico pagherà un tributo assai pesante per la sua bonifica. Ci resta solo la speranza consolante che là, in un domani non lontano, possa rifiorire la realtà nuova di un lavoro adeguato alla dignità dell’uomo.”

Agnese Rosa,
Sindaco di Molina di Ledro
Molina di Ledro, maggio 1984

Studio di mortalità "Collotta-Cis", fine 1995
www.giuseppeparolari.it


Cronaca di guerra



cronache del tempo:

CRONACA DELLA GUERRA
Settore italiano.
L'Agenzia ßtefani comunica :

Comando supremo, 18 dicembre 1915 - (Bollettino n. 206).
Alla confluenza di Valle Torre in Valle Astico, le nostre truppe
con avanzata metodica riuscirono ad occupare Cima Norre, che domina
l'alto corso dell'Astico e ne assicura il possesso.
Ieri, consuete azioni di artiglieria lungo tutta la fronte.
Sulle alture a nord-ovest di Gorizia furono respinti tentativi di
attacco contro le nostre posizioni di Oslavia e di fronte a Peuma.
Un velivolo nemico lanciò 5 bombe su Tiarno di Sopra, in valle
di Ledro; nessun danno.
Cadorna.

Campane



da VT

Tra il 1915 ed il 1918 il destino delle undici chiese maggiori - così come per tutte le strutture civili ed industriali - fu comune: danneggiamenti, ruberie, saccheggi. Quel che rimase furono, ovunque, solo spoglie mura.

In val di Ledro solo le campane di Tiarno di Sotto, datate 1795, si salvarono dal saccheggio degli eserciti...

“Nel sereno mattino del 7 agosto 1837 le campane di Molina e Pieve, sposate in concerto imponente alle note argentine di quelle di Mezzolago, spiegavano il loro suono sullo specchio azzurro del nostro lago ed esprimevano la festa che era nei cuori mentre in lenta ed umile imbarcazione navigava verso pieve il vescovo Giovanni Nepomuceno de Tschiderer, noto anche come costruttore di scuole nelle campagne, iniziatore delle più ricche biblioteche della diocesi e zelante ritrovatore di somme per l'edificazione di chiese ed il decoroso ornamento di tante altre...”

E' questa una delle rare notizie che si hanno delle campane dell'intera valle di Ledro nei secoli precedenti la Prima guerra mondiale. Meno di 80 anni dopo tutta la memoria storica venne infatti cancellata dal conflitto, che in territorio ledrense ebbe uno dei peggiori campi di battaglia di tutto il Trentino. Tra il 1915 ed il 1918 il destino delle undici chiese maggiori - così come per tutte le strutture civili ed industriali - fu comune: danneggiamenti, ruberie, saccheggi. Quel che rimase furono, ovunque, solo spoglie mura.

Gli austriaci requisirono le campane nelle chiese “sotto il lago”, ossia della bassa valle, esclusa Pregasina (che a quel tempo faceva parte della valle di Ledro per poi passare - nel 1954 - a Riva), e con esse gli arredi di ottone, rame e bronzo lasciando, quale risarcimento economico, dei “libretti del prestito di guerra”. Stessa sorte per le campane dei paesi “sopra il lago”, che vennero prelevate dai soldati italiani e portate a Brescia. Gli eserciti insomma non si fecero scrupoli e le campane requisite finirono per esser fuse. Tornando a nuova vita sotto forma di cannoni o armamenti. Tutte tranne quattro, datate 1795. Che a conflitto terminato ricomparirono sul campanile di origine, quello di Tiarno di Sotto, dove ancora oggi fanno concerto con altre tre, recentemente donate da privati.

Lenzumo - La distruzione della guerra a Lenzumo in val Concei. - -
Il ritorno in valle di Ledro - nel 1919 - dei civili sfollati in Boemia fu tremendo: non appena le genti misero piede in terra natia trovarono terribili sorprese. Nessuna traccia delle vecchie strade ed ovunque ordigni di guerra abbandonati. Molte le case distrutte, rase al suolo; solo le chiese, in alcuni casi, avevano resistito ai bombardamenti. E sopra il desolante spettacolo, un silenzio di morte. Fu così che con la ricostruzione che ne seguì negli anni successivi, nuove campane presero il posto di quelle ormai perse, tornando a far riecheggiare, allora come oggi, i loro suoni per le piazze, lungo le strade, attraverso i vicoli. Festeggiando alla vita.

E' possibile ipotizzare che una parte delle campane ledrensi requisite e fuse siano poi rinate sotto forma di “Maria Dolens”, la campana realizzata nel 1924 col bronzo dei cannoni offerto dalle nazioni partecipanti al primo conflitto mondiale, ideata a memoria dei Caduti di tutte le guerre, invocazione di pace e fratellanza fra i popoli del mondo intero.

Stefano Bisaglia


Val di Ledro
Aprile 1916 - Novembre 1917

di Stefano Bisaglia combattente in Valle di Ledro


considerazioni e esperienze del poeta soldato, che, mentre combatteva, riusciva a guardare la nostra terra con occhi incantati e sognatori; oltre alle bellezze naturali, così evidenti ed in contrasto con
la realtà quotidiana della guerra, ha spesso anche un pensiero commosso per la gente che popolava questa
terra, sradicata dalle sue case e allontanata in paesi stranieri.
il poeta si dilunga immaginando come dovevano essere quei luoghi quando la popolazione li rendeva vivi con la sua presenza: la chiesa,il campanile, le botteghe degli artigiani, il mulino in una descrizione così realistica e vicina alla realtà di Molina, con il ponte, i cipressi; e i monti, i nostri monti, i paesi, il romanticismo di un convegno amoroso,o la malinconia di un canto notturno. “Or tutto tace”: ecco il contrasto, con lo scoppio delle granate e il crepitìo delle mitragliatrici; le case distrutte, i focolari infranti, le macerie ovunque.
Ecco la piazza un giorno lieta per voci e grida,lieta per canti e strepiti
e per concerti di campane a festa,lieta di sole per mille colori,
per gli arazzi pendenti dai balconi tutti fioriti e per la gente garrula
brulicante al mercato,per la folla discesa ai dì festivi
dai monti e allor raccolta negli antichi portici ornati ancora di pitture.
Al sole del mattino s’aprivan le finestre con allegro frastuono…
Passavan le fanciulle nelle chiare vie recandosi a messa con gli occhi bassi e avendo nel cuor segreti pensier d’amore…
S’ornavano le ville dei primi fiori dalla mattutina pioggerella spruzzati.
E il mulino vegliava fra le case paterno ed impassibile gigante,
pieno sempre di moto e di gente e di grida e nella notte pieno di luci.
Ancor gorgoglia l’acqua fra le ruote a palette, ormai da tanto
tempo senza alcun moto nel canale ampio da le sponde erbose.
Là certo sopra il ponte ombrato dai cipressi a convegno gli amanti venivan nella sera primaverile e bruna per discorrere,per sorridere,per sognare,per sospirar d’amore.
Sonavan l’ore su la torre alta e la squilla sonora nella sera tranquilla
ripetevano gli echi e vicini e lontani dei monti:
di monte Parì,
di cima d’Oro,

Rispondevano certo altre squille lontane dalle torri vetuste dell’armonica valle
nelle notti serene…
dalla Pieve di Ledro,…
da Bezzecca,… da Tiarno,…
da Lenzumo,…
da Locca…
Altre squille solenni dalle torri lontane.
Sospiravan gli amanti là sopra il ponte ombrato dai cipressi.
Si spegnevano i lumi alle finestre.
Fumavano i camini nell’aria chiara dei pleniluni.
Canti notturni passavan nella valle dove s’udivan suoni di sonagli,
colpi di frusta e grida.
Canzoni melanconiche s’udivano dal lago che parean richiami
del tempo dell’amore che passa e che non torna;
nell’ombre costellate d’una notte di giugno, o invocazioni
di cuori amanti e sofferenti senza speranza più d’alcuna
felicità per questa vita piena di misteri, d’enigmi e d’illusioni.
Passava la mestizia nella valle,come un’onda del lago silenziosa e quieta.
Era così la vita,era così la pace nella valle di Ledro, ampia ridente e chiara…
Or tutto tace dell’antica vita.
Or le piazze e le vie dei paesi deserti ingombre son di macerie bianche.
Or l’erba cresce su la bianca soglia del tempio e attorno alle fontane garrule.
Or l’edera s’arrampica libera per gli squarci delle mura delle case in rovina, entra invadente nelle stanze ove scorrono l’acque piovane e crescono
le muffe e il rospo vive con le serpi.
Non v’è più casa che non sia colpita,non v’è più tetto che abbia le sue tegole.
E la rovina cresce ad ogni sfogo di tedesca rabbia.
Scoppian granate e frugano cercando nei meandri altre vite invano, passano
fasci di luce a sera,lividi in cielo e la valle rimbomba sonora come un tempio
per gli scoppi brutali delle bombe delle bombarde, per il rombo cupo
dei cannoni lontani,per le violenti e più vicine scariche
delle mitragliatrici fragorose.
Or ripetono da tempo questo immane fragor di guerra gli echi
e profuga è la gente della valle nelle terre nemiche più lontane,
dove spasima invano pensando alla nativa terra sacra,alle case distrutte,
al focolare infranto,ai beni ormai perduti per sempre e al tempo ormai breve che resta
della misera vita che verrà; per l’infuriar della tedesca rabbia
che più crudele si dimostra sempre,contro i miseri, i deboli, gli afflitti
da un contrario destino.
Questa è la vita d’oggi
nella valle di Ledro
ampia, ridente e chiara…


Mulini,segherie e fucine

storia della valle:

Mulini, segherie e fucine che il tempo non ha cancellato
08 giugno 2012 — pagina 26 sezione: Nazionale

Se ancora per tutti gli anni Cinquanta le condizioni di vita dei ledrensi non avevano subito cambiamenti sostanziali, sotto la spinta del fenomeno turistico, la valle ha cambiato faccia. Recuperi, riconversioni e ristrutturazioni di vecchie abitazioni da una parte assicurano migliori condizioni di vita ai residenti dall'altra hanno condannato alla sparizione, totale o parziale, dei segni del passato. Alcune di queste testimonianze però, secondo Donato Riccadonna, meritano un'attenzione speciale anche da parte pubblica. Sono la “Bot de l'òra” all'esterno della fucina Tonini di Pre, i resti dell'unico forno per la pece in località Costa Piana a Tiarno di Sopra (L'ultima cotta risale ormai al 1958), e la ruota idraulica dell'officina Maroni a Biacesa, una delle due uniche originali rimaste in valle, che conserva ancora la sua struttura, seppur danneggiata, è tuttora nella sua sede e conserva l'albero metallico che trasferiva il moto alle macine in pietra dentro l'officina. LEDRO Nel terzo dei Quaderni editi dall'Araba Fenice , associazione presieduta da Donato Riccadonna, Alessandro Riccadonna e Stefano Salvi presentano quel che resta oggi in val di Ledro dei circa 200 opifici attivi nell'arco di quattro secoli, dal 1700 alla metà del 900. La ricerca degli autori parte da quello straordinario documento che è il Catasto Teresiano del 1859, rappresentazione di eccezionale precisione dell'intero territorio della valle: confini delle particelle fondiarie ed edificiali, numerazione degli edifici pubblici e di quelli privati, nome e cognome del proprietario, la sua occupazione lavorativa, residenza, destinazione d'uso dell'edificio, dimensioni. Siccome agli autori interessavano “Acqua e fuoco al lavoro”, ovvero le tracce delle antiche attività che sfruttavano come forza motrice i torrenti ed il calore del fuoco, hanno individuato sui fogli del Catasto teresiano 35 mulini, 6 segherie, 3 mulini-segherie, 27 fucine, per un totale di 71 laboratori spartiti nei 10 comuni catastali, le centrali idroelettriche, le calchere, la cartiera, le fornaci per i laterizi, la fabbrica della pece e quelle della magnesia. Poi sono usciti all'aperto a rintracciare quel che rimane. Il libro appena edito presenta il risultato della ricerca in tre sezioni: Acqua, Fuoco ed Acqua e fuoco. Nalla prima 24 mulini, 13 segherie, 3 centrali idroelettriche ed 1 cartiera. La cartiera, costruita nella prima metà dell'800 a valle di Biacesa rimase attiva fino al 1904: quand'era gestita da Antonio Bernabè produsse la carta filigranata per francobolli custoditi a Vienna e considerati i più antichi del mondo. Nel settore del fuoco, accanto alle 28 calchere già oggetto d'uno studio da parte degli operatori ambientali,delle carbonaie e delle fornaci per latyerizi (l'ultima in val dei Molini ha prodotto coppi e “quarei” fino al 1930) è preziosa la testimonianza di Ezio Corsetti, ultimo “pegolòt” capace di spiegare la procedura da seguire: si parte dalla “tia”, il cuore delle ceppaie di pino silvestre che, pulite e seccate, erano cotte per almeno 30 ore in un forno da cui la pece cominciava a colare dentro un paiolo, dove bolliva per addensarsi ed infine filtrata e versata in stampi d'un etto ciascuno. Acqua e fuoco collaborano nelle fucine da cui uscivano le brocche, d'una ventina di tipi: quelle più semplici richiedevano una trentina di colpi di martello ed un bravo “ciuarol” nel produceva anche mille al giorno. Gli autori hanno raccolto le testimonianze di Umberto Canali, Elio Pellegrini Marino Berti che una fotografia ritrae all'opera durante la Festa del Sole del 2011. Delle fucine l'officina Mazzola, costruita nel 1850 lungo il torrente Ponale ed in attività (dopo il passaggio all'alimentazione elettrica del 1929) fin dopo la seconda guerra mondiale, conserva ancora gli attrezzi originali utilizzati per lavorare il ferro: la forgia col crogiolo ed il maglio. Ne uscirono cerchi per le ruote dei carri, aratri, spartineve, zappe, picconi, roncole usati in tutta la valle. Le fabbriche di magnesia erano quattro, una a Pieve (aperta nel 1845, prima in Europa), una a bezzecca e due a Molina. La magnesia usata come digestivo era ricavata dalla frantumazione della roccia dolomitica con una macina alimentata ad acqua, come in un mulino: quindi la polvere veniva calcinata nei forni con un processo industriale a turno continuo (come nelle calchere). “Tracce materiali labili scrive Donato Riccadonna, ma i percorsi della memoria che di tanto in tanto riaffiorano sono ben presenti. Nostro compito è di non dimenticarlo. Mai”. (c.g.)


Mulini, segherie e fucine

storia della valle:

Mulini, segherie e fucine che il tempo non ha cancellato
08 giugno 2012 — pagina 26 sezione: Nazionale

Se ancora per tutti gli anni Cinquanta le condizioni di vita dei ledrensi non avevano subito cambiamenti sostanziali, sotto la spinta del fenomeno turistico, la valle ha cambiato faccia. Recuperi, riconversioni e ristrutturazioni di vecchie abitazioni da una parte assicurano migliori condizioni di vita ai residenti dall'altra hanno condannato alla sparizione, totale o parziale, dei segni del passato. Alcune di queste testimonianze però, secondo Donato Riccadonna, meritano un'attenzione speciale anche da parte pubblica. Sono la “Bot de l'òra” all'esterno della fucina Tonini di Pre, i resti dell'unico forno per la pece in località Costa Piana a Tiarno di Sopra (L'ultima cotta risale ormai al 1958), e la ruota idraulica dell'officina Maroni a Biacesa, una delle due uniche originali rimaste in valle, che conserva ancora la sua struttura, seppur danneggiata, è tuttora nella sua sede e conserva l'albero metallico che trasferiva il moto alle macine in pietra dentro l'officina. LEDRO Nel terzo dei Quaderni editi dall'Araba Fenice , associazione presieduta da Donato Riccadonna, Alessandro Riccadonna e Stefano Salvi presentano quel che resta oggi in val di Ledro dei circa 200 opifici attivi nell'arco di quattro secoli, dal 1700 alla metà del 900. La ricerca degli autori parte da quello straordinario documento che è il Catasto Teresiano del 1859, rappresentazione di eccezionale precisione dell'intero territorio della valle: confini delle particelle fondiarie ed edificiali, numerazione degli edifici pubblici e di quelli privati, nome e cognome del proprietario, la sua occupazione lavorativa, residenza, destinazione d'uso dell'edificio, dimensioni. Siccome agli autori interessavano “Acqua e fuoco al lavoro”, ovvero le tracce delle antiche attività che sfruttavano come forza motrice i torrenti ed il calore del fuoco, hanno individuato sui fogli del Catasto teresiano 35 mulini, 6 segherie, 3 mulini-segherie, 27 fucine, per un totale di 71 laboratori spartiti nei 10 comuni catastali, le centrali idroelettriche, le calchere, la cartiera, le fornaci per i laterizi, la fabbrica della pece e quelle della magnesia. Poi sono usciti all'aperto a rintracciare quel che rimane. Il libro appena edito presenta il risultato della ricerca in tre sezioni: Acqua, Fuoco ed Acqua e fuoco. Nalla prima 24 mulini, 13 segherie, 3 centrali idroelettriche ed 1 cartiera. La cartiera, costruita nella prima metà dell'800 a valle di Biacesa rimase attiva fino al 1904: quand'era gestita da Antonio Bernabè produsse la carta filigranata per francobolli custoditi a Vienna e considerati i più antichi del mondo. Nel settore del fuoco, accanto alle 28 calchere già oggetto d'uno studio da parte degli operatori ambientali,delle carbonaie e delle fornaci per latyerizi (l'ultima in val dei Molini ha prodotto coppi e “quarei” fino al 1930) è preziosa la testimonianza di Ezio Corsetti, ultimo “pegolòt” capace di spiegare la procedura da seguire: si parte dalla “tia”, il cuore delle ceppaie di pino silvestre che, pulite e seccate, erano cotte per almeno 30 ore in un forno da cui la pece cominciava a colare dentro un paiolo, dove bolliva per addensarsi ed infine filtrata e versata in stampi d'un etto ciascuno. Acqua e fuoco collaborano nelle fucine da cui uscivano le brocche, d'una ventina di tipi: quelle più semplici richiedevano una trentina di colpi di martello ed un bravo “ciuarol” nel produceva anche mille al giorno. Gli autori hanno raccolto le testimonianze di Umberto Canali, Elio Pellegrini Marino Berti che una fotografia ritrae all'opera durante la Festa del Sole del 2011. Delle fucine l'officina Mazzola, costruita nel 1850 lungo il torrente Ponale ed in attività (dopo il passaggio all'alimentazione elettrica del 1929) fin dopo la seconda guerra mondiale, conserva ancora gli attrezzi originali utilizzati per lavorare il ferro: la forgia col crogiolo ed il maglio. Ne uscirono cerchi per le ruote dei carri, aratri, spartineve, zappe, picconi, roncole usati in tutta la valle. Le fabbriche di magnesia erano quattro, una a Pieve (aperta nel 1845, prima in Europa), una a bezzecca e due a Molina. La magnesia usata come digestivo era ricavata dalla frantumazione della roccia dolomitica con una macina alimentata ad acqua, come in un mulino: quindi la polvere veniva calcinata nei forni con un processo industriale a turno continuo (come nelle calchere). “Tracce materiali labili scrive Donato Riccadonna, ma i percorsi della memoria che di tanto in tanto riaffiorano sono ben presenti. Nostro compito è di non dimenticarlo. Mai”. (c.g.)


Pier Antonio Cassoni



storia della valle:

Cassoni, maghi della magnesia
Da Pier Antonio a Bartolomeo: il lassativo che diventa grande industria

di Donato Riccadonna

LEDRO. Avevamo un genio e non lo sapevamo! Pier Antonio Cassoni di Ledro, nel 1816, primo al mondo, produsse in laboratorio il carbonato di magnesio dalla dolomite. Ma non lo brevettò e questa scoperta non lo portò nel ristretto cerchio dei grandi pionieri della chimica e della farmacologia. Pensate che "solo" nel 1841 il chimico inglese Pattinson brevettò il processo industriale della calcinazione della magnesia, dandogli ovviamente il proprio nome. Ma comunque fu proprio Pier Antonio Cassoni a dare l' avvio ad uno dei primi poli industriali europei di produzione della magnesia. In val di Ledro e con quelle difficoltà alla viabilità ben note già allora (la Ponale fu aperta nel 1851)!. E chi ha ri-scoperto tutto ciò? Ma che domanda: i cugini Carlo e Paolo Cis da Bezzecca, che con questa loro dodicesima fatica in 11 anni, "La famiglia Cassoni di Ledro. Bortolo, Pietro Antonio e Bartolomeo Cassoni: chimici, farmacisti e industriali", sono usciti con un libro pochi giorni fa per merito della neo nata associazione culturale Achille Foletto. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Livio Cassoni, il pronipote morto a Massone nel 2008 alla veneranda età di 97 anni frequentante la Beppa Giosef, non si stupisce di fronte alla genialità e alla curiosità espressa da questa famiglia dal padre Bortolo (1738-1816), al figlio - il vero genio - Pietro Antonio (1790-1834), fino al nipote - l'industriale - Bartolomeo (1810-1850). E colpisce il fatto che il destino si accanì tragicamente contro questa dinastia tanto che non rimase quasi discendenza e la farmacia fu prelevata da Giovanni Foletto (1827-1906), i cui parenti tuttora esercitano l'unica farmacia della valle, aprendo addirittura un museo della farmacia. Girava addirittura la chiacchiera che molti credevano ad una specie di vendetta della montagna contro coloro che ne avevano carpito così bene i segreti. Il racconto dei cugini Cis si snoda, come al solito, tra documenti storici, ricostruzioni "romanzate" di ambienti e di figure, uno sguardo a quello che succedeva oltre la valle e oltre confine nazionale: il tutto per dimostrare ancora una volta come Ledro, nonostante l'isolamento forzato dovuto alla morfologia, era ben inserito nelle dinamiche internazionali ed ha espresso personaggi di grande spessore. Come appunto gli speziali-farmacisti Cassoni. La farmacia a Ledro esisteva sicuramente già nel 1700 e Bortolo Cassoni la gestì nei primi anni dell'800; ma è con Pietro Antonio e Bartolomeo che l'attenzione si sposterà sempre più dalla farmacia alla produzione industriale, tanto da abbandonare la prima attività affidandola ad altri. Pietro Antonio era una vera fucina di idee: la più geniale fu quella di ottenere la magnesia dalla roccia dolomitica, e questo fu un primato assoluto non essendoci alcun precedente. E lo schema di sperimentazione lo mise a punto già dal 1808 a 18 anni! Ma il suo pallino erano le acque termali, arrivando addirittura ad allestire vicino al proprio laboratorio a Pieve un piccolo stabilimento termale e
progettandone uno ben più ambizioso a Trento. Ma nel 1834 a soli 44 anni muore lasciando incompiuti i grandi progetti. Toccherà al nipote medico Bartolomeo realizzare il sogno: le sue vicende si incroceranno nel bene e nel male con un altro grande personaggio di Ledro, Giacomo Cis, che presterà dei soldi per realizzare lo stabilimento industriale di Pieve. E per arrivare ad una produzione giornaliera di ben 40 chili di buona Magnesia fluida Dolomina (che poi serve come purgativo e come digestivo) dai 1-2 Kg del laboratorio artigianale di Pieve, Bartolomeo si ispira anche all'attenta osservazione dell'antica arte della calcinazione dei sassi calcarei delle calchere ledrensi. Nel 1845 apre i battenti la fabbrica in località Praisola e per farla funzionare in maniera ottimale bisognava che fosse a turno continuo: e qui sono gustose le vicende della richiesta della dispensa per gli operai a lavorare anche nei giorni festivi richiesta alla chiesa. Ma il destino tragico si abbatte ancora sui Cassoni: Bartolomeo muore nel 1850 a 40 anni. La fabbrica di Pieve passa di mano e produrrà fino al 1886, mentre Bernardino Collotta, capo operai di Cassoni, con Giuseppe Cis e Martino Gigli spostò la produzione nella valle dei Mulini a Bezzecca nel 1857 e poi in paese a Molina di Ledro nel 1900. Ma questa è un'altra storia.