domenica 1 maggio 2016

Ma la vecchia Ponale di chi è ?

mi chiedo a questo punto; ma la vecchia Ponale di chi è ?????
Riaprire ai veicoli la vecchia Ponale: la proposta in una mozione Lascia un commento
15 ottobre 2013 di Paola Malcotti
Riaprire la strada del Ponale in modo tale che la valle di Ledro possa disporre – in caso di assoluta necessità – di una viabilità alternativa al tunnel dell’”Agnese”. Sono in molti quelli che, all’indomani del tragico scontro tra due moto e l’incendio scoppiato in galleria di un mese fa, hanno avanzato l’idea relativa al ripristino del vecchio tracciato a picco sul lago quale unica soluzione possibile per evitare alla valle l’isolamento. Tra questi anche GianMario Trentini e Ezio Toniatti, consiglieri del Patt, che la prossima settimana porteranno in seno al consiglio comunale una mozione.
«Sul tema annoso della viabilità in galleria – scrivono – si discute da troppo tempo. Sono risapute le carenze strutturali e di sicurezza del tracciato e delle infrastrutture, che non vengono affrontate con tempestività. La recente cronaca ha evidenziato i limiti di un collegamento viario privo di garanzie in fatto di sicurezza. Il tunnel dell’”Agnese” risulta superato ed abbisogna di lavori di ammodernamento. Questo significa che in un prossimo futuro molto probabilmente si dovrà provvedere alla chiusura al transito nel tunnel anche per lunghi periodi. A questo punto viene spontaneo chiedersi come faranno i ledrensi a recarsi da e verso Riva.
La risposta che nasce spontanea e che è sulla bocca di molti è di riutilizzare la vecchia Ponale, strada che per decenni ha garantito dignitosamente il collegamento. Purtroppo qualcuno da molto tempo ha deciso però che quel tracciato è troppo pericoloso ed oneroso per essere mantenuto in servizio, nemmeno quale ultima ratio in caso di necessità per un’intera valle e, non pago della sua chiusura, ha deciso di declassarla a sentiero di montagna. Ora la situazione è sotto gli occhi di tutti: la vecchia Ponale, da meraviglia ingegneristica e vanto della valle è divenuta un percorso di mountain bike malamente manutentato e semi abbandonato. Non vi si accede più nemmeno con un mezzo di soccorso. La mozione vuole pertanto impegnare il sindaco a perseguire, presso tutti i livelli istituzionali, la messa in sicurezza dell’“Agense” e a valutare le possibili soluzioni atte a ripristinare almeno in parte – con una corsia, anche sterrata, di almeno tre metri di larghezza, a senso unico alternato – la vecchia Ponale».
Nessuna presa di posizione contraria arriva intanto da Fabrizio Di Stasio, presidente del Comitato Cis: «Per sgravare il disagio che potrebbe interessare un gran numero di ledrensi nel caso di lavori all’”Agnese”- dice – ci sentiamo di condividere questa scelta purché il sentiero rimanga “bianco”, con la posa di solo stabilizzato, senza asfaltatura, non venga compromessa la fruizione estiva del percorso agli escursionisti, si tenga conto delle nostre indicazioni. Ma soprattutto che venga garantito il ripristino a sentiero una volta terminati i lavori».
fonte: Paola Malcotti – l’Adige di oggi, martedì 15 ottobre 2013

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Le calchere


Le calchere
Le calchere sono delle fornaci che venivano utilizzate per la produzione della calce viva. Massi di pietra calcarea venivano raccolti, sistemati e cotti per ottenere la speciale sostanza che aveva molti usi in diversi settori. Nonostante non vengano più utilizzate, ne rimangono sul territorio ledrense circa una quarantina.
La calchera tradizionale, utilizzata per la cottura delle pietre calcareee, è una struttura circolare a tino in pietra di dimensioni variabili da 3-5 m di diametro e 4-6 m di altezza costruita normalmente entro un terrapieno. La costruzione in terrapieno aveva una duplice motivazione: da una parte una maggiore facilità costruttiva per le murature verticali che potevano essere parzialmente appoggiate, e dall'altra l'esigenza di avere un pendio di accesso all'aperturta superiore della calchera.
I materiali usati per edificare le calchere possono essere suddivisi in due gruppi: rocce calcareo-dolomitiche e rocce di deposito morenico (graniti, porfiriti, metamorfiti). Le calchere costruite con il primo tipo di rocce presentavano l'inconveniente di subire una notevole usura: durante la calcinazione si cuoceva infatti anche la parte interna della calchera, con conseguente diminuzione dello spessore della stessa. Ciò pregiudicava la struttura del manufatto che dopo diverse cotture doveva essere ricostruito o abbandonato. Per attenuare questo fenomeno si usava proteggere le pareti con un rivestimento di calce.
Costruita la calchera, in un luogo dove erano disponibili grandi quantità di sassi adatti alla cottura e raggiungibili con i carri, prima di inziare la "cotta" occorreva avere a disposizione grandi quantità di materiale legnoso sotto forma di fascine di diametro di 30-40 cm e del peso di 8-10 Kg. Per una calchera di media capacità (250 Kg di calce viva prodotta) occorrevano più o meno 3000 fascine che un boscaiolo specializzato riusciva preparare in circa un mese di tempo. Una buona parte del costo di produzione della calce era senz'altro dovuto alla necessità di procurarsi grandi quantità di legna. Il miglior combustibile erano fascine di abete e pino ma non venivano didegnati nemmeno scarti e ramaglie residue dalle lavorazioni in bosco e cespiglio come quelli di nocciolo, frassino e salice che non venivano usati nemmeno come combustibile nelle case.
Per la produzione della calce venivano utilizzate, cioè cotte, rocce di tipo calcareo che si trovano praticamente ovunque nela territorio ledrense. Le rocce venivano normalmente raccolte nelle vicinanze della calchera, lungo il greto dei torrenti e sotto le pareti, e la loro selezione in "calcari buoni" e "calcari non buoni" dipendeva dall'esperienza acquisita dal "calcherot" negli anni di lavoro.
Per far funzionare la calchera veniva innanzitutto raccolta la legna in fascine che venivano poi accumulate nei pressi della fornace. Generalmente il peso della calce viva prodotta corrispondeva a quello della legnautilizzata per la cotta. Completata l'opera di raccolta ci si apprestava alla preparazione della fornace. La prima fase vedeva la costruzione delle "bocche" del fornello e del "volt". Massi opportunamente squadrati venivano posti a cornice di un foro attraverso il quale si sarebbero poi introdotte le fascine di legna. Sotto la bocca veniva lasciato un foro di sfiato, utile anche per estrarre gli eventuali accumuli di cenere, risultato dalla combustione. Operazione particolarmente delicata, a questo punto, era quella della costruzione della volta che veniva a situarsi come un diaframma tra il fornello ed il materiale di carico. Su una sorta di banchina che circondava il fornello venivano poste, utilizzando la tecnica classica di costruzione della volta a botte, le pietre calcaree. I sassi, accostati l'uno all'altro a secco, si reggevano l'uno sull'altro; per dare stabilità alla struttura veniva posto al centro un masso a forma di cuneo, chiave di volta. La fornace era quindi pronta per essere caricata con il materiale calcareo raccolto. Quest'ultimo veniva sistemato a pezzatura decrescente: i sassi più grossi più prossimi alla fiamma. Una volta ultimato il carico ci si apprestava alla chiusura della porta.
Tutto era pronto per l'accensione della fornace: nel fornello veniva sistemato un cumulo di legna al quale si dava fuoco con una torcia. Da questo momento in poi l'introduzione delle fascine era regolare ed ininterrotta, ogni 3 minuti veniva introdotta una nuova fascina per 90 ore senza interruzione. Nella prima fase di cottura, dalla sommità della fornace si sprigionavano fiamme rosse; nell'ultima fase, la fiamma che usciva acquistava riflessi azzurrati. Le operazioni di scarico della fornace avvenivano un paio di giorni più tardi, quando la calce viva, raffreddatasi, risultava più maneggiabile. In genere la calce viva prodotta veniva pesata sul posto e venduta direttamente in loco agli acquirenti che si presentavano.
La calce veniva usata in molti settori con diverse funzioni. E' un materiale fondamentale nell'edilizia tradizionale: veniva impiegata nell'impasto delle malte, per intonaci e per le tinteggiature, per la disinfezione degli ambienti. In agricoltura era talmente diffusa che spesso nei cortili veniva approntata la cosiddetta "busa della calce", la fossa contenente una certa quantità di calce spenta e sempre pronta all'uso. Veniva inoltre utilizzata come conservante.
Nella Valle di Ledro, distribuite in tutti i sei comuni, specialmente in quello di Tiarno di Sopra, nella Val d'Ampola, in Concei e a Molina di Ledro, sono state censite 40 calchere.
(fonte: Le calchere del Comprensorio Alto Garda e Ledro, Museo Civico Riva del Garda)


La tragedia della Val di Genova

da "Senti le rane che cantano"
La tragedia della Val di Genova
Il 12 ottobre del 1950 in Val di Genova, dove si sta lavorando ad una galleria che serve a convogliare le acque di uno dei rami del Sarca agli impianti idroelettrici che sono in costruzione nel Trentino occidentale, scoppia una mina in anticipo: a morire sono in sei. La ditta colpita dalla tragedia è la SISM, la Società Idroelettrica Sarca-Molveno, concessionaria delle derivazioni d’acqua del fiume Sarca e del lago di Molveno. Questa impresa, nei cui cantieri si svolgerà buona parte dell’attività sindacale di Rino Battisti, a partire dagli anni ’40 aveva iniziato la costruzione di una vasta rete di cunicoli e gallerie che raggiunsero la lunghezza complessiva di 50 chilometri. Lo scopo era quello di imbrigliare la forza del fiume Sarca nella complessa opera di svuotamento e di regolazione delle acque del lago di Molveno e lo scavo in roccia dell’enorme caverna della centrale elettrica di Santa Massenza. La storia della SISM è costellata da numerosi incidenti mortali, 33 in tutto, una lunga scia di sangue che inizia nel 1948 e termina nel 1960, tra i quali uno dei più drammatici è proprio quello del 12 ottobre 1950 in Val di Genova. All’origine del disastro pare vi fosse stato l’uso di nuovi tipi di detonatori elettrici, forse difettosi, utilizzati per innescare l’esplosione d’una volata di mine nella finestra della «Prisa di Carisolo» della galleria di derivazione dal Sarca di Val Genova al lago di Molveno. Un incidente dunque non da attribuire alla fretta con la quale avvenivano solitamente le esplosioni delle mine, che molto spesso portavano alla morte dei fuochini, ma al materiale difettoso. A morire non sono solo degli operai, ma anche un ingegnere, il dottor Giuseppe Biasioli, 38 anni, veronese d’origine. Con lui periscono, come su un campo di battaglia, Antonio Giacoma-Bottalat, 50 anni, assistente tecnico, residente a Castelnuovo Nigra, in provincia di Torino; Albino Franzinelli, 41 anni, capo minatore residente a Molina di Ledro; Carlo Roggeri, 58 anni, fuochino, residente a Gazzaniga in provincia di Bergamo; Bortolo Rossi, 37 anni, di Castione Presolana, anch’egli bergamasco e infine Umberto Soranzo, ventisettenne autista, residente a Castello di Fiemme. Sei nomi e sei provenienze, sei età e sei professioni che ci dicono molto, ancora una volta, della composizione variegata dei lavoratori presenti sui cantieri idroelettrici trentini: tra i sei morti, solo due sono trentini, gli altri provengono da province vicine. Nei sette incidenti mortali avvenuti tra il marzo del ’48 e l’11 ottobre del ’50 che precedono quello avvenuto in Val di Genova, tra le vittime anche un giovane di 24 anni di Rocca di Cambio, in provincia dell’Aquila, Gesualdo Ottaviani, morto il 17 gennaio del 1950 sotto una frana in una galleria in Val d’Ambiéz, a ricordare la presenza in Trentino di tanti lavoratori del Sud64. I nomi di tutti coloro che perirono, ormai sepolti dal tempo, sono i nomi di chi diede la vita in cambio di un lavoro; forse risuonano ancora negli echi di quelle strette vallate o nelle gallerie ormai invase dall’acqua. In occasione dell’incidente in Val di Genova Sisinio Tribus si fa giornalista e racconta con partecipazione il dramma di un’intera valle:
«Le sei salme vennero portate sulle barelle nella cappella di S. Vigilio, al cimitero, dai compagni di lavoro. Poi, la notizia che correva veloce sui fili del telefono, dal ticchettio dei telegrafi, ai giornali, nelle vallate, nelle città, portando orrore e sgomento e dolore. Poi la veglia notturna alle salme, l’ultimo addio dei minatori, di tutti i minatori della valle, il saluto dei bimbi, saluto innocente fatto con pochi fiori di campo, il saluto delle donne della Rendena, nei loro abiti neri delle grandi occasioni, lo strazio dei parenti. Una marea di gente sostava ai margini della strada polverosa, in attesa che le sei bare uscissero dalla cappella, portate a spalla dai minatori.»


La radice semantica TR


Una vecchia cartolina di Tremalzo mostra i resti di una massiccia muraglia di pietra immediatamente di fronte al rifugio Guella.
Come hanno testimoniato recenti ricerche archeologiche nell'area, la località ha una storia millenaria, che personalmente ritengo ancora tutta da scoprire. Era un passo che metteva in comunicazione popolazioni che possedevano culture evolute, ovviamente in relazione alle epoche del neolitico e dell'età del bronzo.
Ne è testimonianza la denominazione della località, che non ha nulla a che fare col numero tre.
La radice semantica TR si ritrova nelle lingue di origine più antica, come nel sanscrito e nelle antichissime lingue di origine indo-europea. La comparazione tra le varie lingue ha permesso di stabilire che la ricorrenza della radice semantica tṝ, composta dal suono t dentale "t" e dalla r vocalica lunga "ṛ" (il sanscrito considera foneticamente la r anche con valore vocalico) è in relazione al significato primario di passare attraverso.
Ne rimangono tracce nel latino (trans) e in tantissime parole italiane: TRaversare, TRasportare, TRamontare (andare oltre i monti), TReno, TRansitare, TRavalicare, TRasportare, TRadotta, TRaforare, TRaghettare, TRagittare, TRasferire, TRapassare… e mi fermo solo alla primo vocale!
In latino è poi evidente l’analogia semantica con il termine “altius”, che significa “di altezza maggiore”, “più in alto”.
Dunque TR + ALTIUS … lascio a chi legge la conclusione.

Severo Donati (Tiarno di Sotto, 1857/1936) La palafitta


La palafitta
Severo Donati (Tiarno di Sotto, 1857/1936)
Se i òmegn de Val de Leder i à‘mpianta propri ‘n del Lach,i pai da farghè sòra ‘l so bel paés,come ì usava alòra,me par che ‘n bò déerito i l’hai ciapà,de dir che ‘l Làch l’è so, e che no gàpropri nigù resò de vignir föra,a questionar adés, parché a st’ora,tuç i laòr precisi no si sa!
Però li ‘n mez ai pai me parde vedèr fermi ‘mpale, i patrò de Val de Lédere a mi che ghe domando: a chi èf lasà,quando sé mòrç, la vòsa redità?
I me rispondi: e tèra e Lach e òr,tut quant a v’altri, e pöch a quei da Stòr.
Donque la Val col Lach la n’è vignia per la resò de giusta parentela;e tal e quàla sémper l’om tignia;l’òm canopà, pescà e fata béla!
La Val l’èi mèssa a la revèrsa,ma sòra ‘l Garda,‘l pù zeleste e bel de tüç i lach,che
come na traversa giù, giù,‘l se slonga luster come ‘l ziel.L’acqua de Cadria e Ranc
la se riversagiù ‘n de stò lach, che vist a star sul Gel,quande la nebia ‘n po’ la s’à dispersa,a dirlo ‘n mar, no sé ghen taca ‘n pel.

Su pè stò làch ‘l vè su aria sana,n’òra légéra, tìviacome ‘l làt,n’òra, che te ‘ndre ‘l frèt de tramontanae che te fa sintìr sòta ‘l crosàt,che la tò mari l’èra na italiana,e che taliàà del zèrto la t’à fàt.

IL PRINCIPE VESCOVO E LE COMUNITÀ DI VALLE: L’ESEMPIO DELLA VAL DI LEDRO (1159)

IL PRINCIPE VESCOVO E LE COMUNITÀ DI VALLE: L’ESEMPIO DELLA VAL DI LEDRO (1159)
La strategia adottata dal principe vescovo di Trento per costruire la propria sovranità nel territorio del principato vescovile, attraverso accordi e pattuizioni con le forze sociali e politiche radicate in loco, è diversificata da caso a caso. Rispetto a comunità politicamente importanti, come quelle che riuniscono in una sola realtà diversi comuni di una intera vallata, il vescovo manifesta una particolare prudenza ed è incline a delegare al massimo le sue prerogative sovrane. È quanto accade alla più importante comunità di valle trentina, quella della val di Fiemme, ma analogamente anche ad altre realtà del territorio trentino. Così ad esempio, alla comunità della valle di Ledro, all’estremo confine occidentale del principato e della diocesi: il vescovo Adelpreto sottoscrive con esso un accordo in cui viene concessa innanzitutto l’essenziale prerogativa dell’amministrazione della giustizia. Il luogo di stipula è ancora una volta Riva del Garda, l’anno il 1159.
«Al la presenza di costoro Adelpreto vescovo della Chiesa trentina, con un legno che teneva in mano, liquidò agli uomini di Ledro i diritti sul placito di san Martino e su quello di Pasqua con questo patto: che gli uomini di Ledro debbano ogni anno dare al vescovo o ai suoi successori sul mercato di Riva 50 arieti e 4 vacche e 75 lire di denari veronesi; al mercato di sant’Andrea 75 lire e 20 arieti e 2 vacche e 2 maiali, senza alcun inganno».
I «placiti di san Martino e di Pasqua», dunque in autunno e in primavera a distanza all’incirca di sei mesi, sono le assemblee giudiziarie: le due sole occasioni, lungo tutto l’anno, nelle quali l’autorità pubblica – nel nostro caso, il vescovo – si trasferiva in loco e amministrava la giustizia nelle materie penali più gravi. Erano occasioni che costituivano anche – per ambedue le parti, il signore e i sudditi – una rassicurante conferma della sovranità. Orbene, il vescovo Adelpreto rinuncia anche a questa sua prerogativa, di fatto sancendo implicitamente un pieno autogoverno di questa comunità. In effetti la deliberazione successiva è pienamente conseguente. Con la rinuncia del vescovo, si è creato in sostanza un vuoto di potere, un’assenza di giurisdizione: e allora
«se sarà commesso qualche adulterio o omicidio o si constaterà qualche matrimonio fra consanguinei, debba essere fatta giustizia sotto il p[otere?] dei villici episcopali, o sotto il potere del visdomino o dell’arcidiacono a spese di colui che ha recato offesa, senza altri inganni. Quanto al servizio, dovranno corrispondere 150 lire al vescovo e 50 alla curia dei vassalli; e se avranno dato un uomo, si dovrà scalare la somma corrispondente alla quota di costui».
La bilateralità del patto, che formalmente si presenta come una concessione ‘graziosa’ del vescovo, è particolarmente evidente dalle clausole finali . Gli attori stabiliscono vicendevolmente come penalità che se uno dei due contraenti avrà derogato da questo accordo e patto, oppure non lo avrà osservato in tutto e per tutto come è scritto di sopra, allora la parte colpevole paghi alla parte rispettosa dei patti 200 lire veronesi di buona moneta.
G.M.V.



Il museo delle palafitte di Ledro

da "Lago di Garda magazine"
Il museo delle Palafitte a Molina di Ledro
L'estrema scarsezza di reperti non permette che limitate interpretazioni sulla costituzione fisica degli abitanti. Per quanto riguarda la statura edia, facendo un raffronto con gli altri abitanti lacustri di quei tempi, si presume di cm. 156. Anche nella stazione di Ledro, come è regola per gli abitanti palafitticoli preistorici, è stata rilevata l'assenza di inumazioni. Questo fatto fa pensare che i palafitticoli praticassero il rito di bruciare i propri morti. Le opinioni riguardanti i dati cronologici della colonizzazione del Lago di Ledro da parte dei palafitticoli sono discordi, il dato cronologico inferiore, di origine, è collocato fra il 2000 e il 1800 a.C., e quello superiore fra il 1500 e il 1200 a.C.
Il periodo della Pietra in Val di Ledro
La pietra, scheggiata, levigata o grossolanamente abozzata, ha costituito insieme al legno la materia d'uso che si prestò a tutte le esigenze strumentali fin dai primordi dell'umanità. Nella palafitta a Molina di Ledro, che vide il suo pieno fiorire nell'età del bronzo, la permanenza di un suo uso diffuso ed esteso a vari settori d'impiego, è ovunque documentata con relativa abbondanza. La categoria di manufatti maggiormente indicativa, anche se di minuscole dimensioni, è rappresentata dagli oggetti in selce, che, come è noto, data la sua durezza e la sua fragilità, non si presta ad altra lavorazione che non sia la scheggiatura. Troviamo rarissimi pugnali a foglia di lauro e poche punte di freccia, schegge ritoccate e destinate a raschiatoi. Le asce sono generalmente di piccole dimensioni con lati lunghi e curvi e lati brevi e dritti. Solo in un unico esemplare è stata reperita un'ascia tipo "ferro da stiro" con foro per il manico. In pietra arenaria sono i lisciatoi ed i frammenti riferibili a forme di fusione per il bronzo ricavati direttamente dalle forme di massi e ciottoli di rocce cristalline che costituiscono una vicina morena glaciale. Sono una serie di oggetti di uso assai diffuso le pietre da focolaio, in genere in granito, pietre per la molitura, usate per ridurre i cereali in farina, mazze e martelli.
A scopo chiaramente ornamentale sono i grani di ambra che si rinvengono con una certa frequenza nel deposito. Sulla loro provenienza non si può asserire nulla, si può però sostenere l'ipotesi che li vedrebbe inseriti in quel flusso di scambi commerciale con palafitticoli boemi, dedotto da molteplici altri indizzi.
La Tessitura in Val di Ledro
Pesi da telaio in notevole abbondanza, fusaiole talora ornate con impressioni puntiformi, pettini da telaio in corno di cervo, aghi in osso, oltre a lembi di stoffa sono la documentazione materiale di questa attività. La stoffa veniva tessuta con filo di puro lino e si presenta: ora a trama piuttosto serrata, ora più larga. Fu reperita in brandelli, in rettangolini soprapposti che denunciano l'uso di ripiegarla, ed in strisce arrotolate, una delle quali costituisce una vera e propria cintura.
L'interesse maggiore di questo rinvenimento, probabilmente unico, è costituito dal fatto che la trama si intesse ai due bordi con l'ordito senza soluzione di continuità, il che presuppone l'uso di un telaio di ridotte dimensioni. Niente ci vieta di immaginare, anche se non ne abbiamo alcuna prova, che i prodotti tessili destinati al vestiario siano stati colorati con sostanze vegetali, come è costume antichissimo.
Vale la pena di aggiungere che l'assenza di filati di lana è ascrivibile alla facile decomposizione di tale sostanza.
L’ambiente e l’alimentazione in Val di Ledro
I reperti archeologici rilevano una composizione di specie animali e vegetali non molto dissimile da quella che potrebbe essere l'attuale, in mancanza dell'intervento modificante dell’uomo. Tra i molluschi sono state trovate in notevole quantità le valve dell’Anodonta Mutabilis Cless, ostrica d'acqua dolce. Gli animali domestici di maggiore importanza economica sono: buoi, capre, pecore e suini, di dimensioni medie rispetto alle faune dell'età dei metalli. Il cane presente in Val di Ledro si inserisce in una forma evolutiva intermedia tra l'età della pietra, quella del ferro e romana. L'orso possiede una variabilità non molto grande ed una statura media rispetto alle altre faune europee, anche se qualche reperto indica la presenza di alcuni individui di dimensioni maggiori. Il cervo, il capriolo, la volpe ed il camoscio non hanno permesso osservazioni particolari. Il cinghiale è presente con un paio di reperti.
Ledro era un villaggio economicamente autosufficiente, la sua fauna domestica era sfruttata in modo da soddisfare al massimo i bisogni della popolazione. La fauna selvatica era appena presente, cacciata e consumata episodicamente nel villaggio. La fauna domestica era allevata senza particolari precauzioni. L'allevamento era estensivo, almeno in estate, ed in inverno si poneva il difficile problema della nutrizione che provocava forse spesso la macellazione degli animali in età giovane. Con la sola valutazione dei resti del pasto ritrovati è possibile tracciare un quadro sufficientemente orientativo dell'alimentazione e tenore di vita. Tutti gli animali terrestri di cui si è parlato costituivano fonte di pasto, e molto verosimilmente lo spolpamento delle loro ossa era integrale.
La lavorazione del legno in Val di Ledro
Per le antiche popolazioni alpine il legno rappresentava la materia d'uso di primaria importanza. Prescindendo dall'ovvio impiego nella costruzione delle capanne, palizzate di difesa, etc., il legno, nella cui lavorazione i palafitticoli rivelano totale padronanza, si è prestato alla confezione di gran parte degli utensili casalinghi, attrezzi da caccia e difesa, imbarcazioni, eccetera. E' legittimo immaginare una varietà ed una quantità più vasta di quanto possano documentarci i resti reperiti negli scavi. La lavorazione del legno in Val di Ledro avveniva: o direttamente mediante taglio con lama degli oggetti di mole ridotta, oppure con il predisporre la forma di base avvalendosi del fuoco e successivamente dando ritocchi finali con strumenti da taglio o abrasivi.
I manufatti più rappresentativi sono ciotole, padelle, taglieri, manici di problematica interpretazione, che costituivano probabilmente lo strumento per la confezione dei pasti. Come armi sono interpretate le mazze a testa sferoidale, oggetti fusiformi che sono descritti come boomerang, e archi di legno. L'impiego del legno in agricoltura è documentato dal rinvenimento di un aratro, con punta robusta ed asta per il traino. Una categoria di reperti di rilevante interesse interpretativo è costituita dalle conoe monoxili.
Strumenti in osso e corno in Val di Ledro
Molteplici servizi offrivano gli strumenti costituiti dall'ossame e dalle corna degli animali. Dai tarsi e dai cubiti di varie specie animali si ricavavano punteruoli e pugnali, oltre che spatolette, aghi da cucito, cerchietti ornamentali, fibie, salvapolso per l'uso dell'arco, eccetera.
In vario modo erano usate le corna dei cervi, la cui relativa abbondanza non stupisce se pensiamo alla loro caducità annua, esse costituivano martelli o percussori, oppure potevano accogliere strumenti in metallo. Se forate si adattavano ai manici di legno. I rami laterali, inoltre, potevano costituire uno strumento per modellare la ceramica. Sempre di corno cervino due eleganti pettini da tessitura. Il corno di capriolo, animale che dai reperti risulta più raro del cervo, non trova analoghi usi se non in forma limitata.
La ceramica in Val di Ledro
La varietà e la quantità di manufatti ceramici a Ledro è veramente enorme ed il tipo, la forma e le dimensioni svariatissime. L'impasto, generalmente grossolano e smagrato con vari additivi minerali, si presenta spesso fine, ben levigato e lucido. Il colore è monotonamente nero o scuro, brunastro o rossiccio, quando non sia impallidito per sovracottura a causa di incendio. Le dimensioni sono molto varie.
Una valutazione colloca al primo posto come frequenza i grandi orci tronco-conici da derrate alimentari, con decorazione costituita quasi di regola da cordoni realizzati e ricavati dallo spessore del vaso, o applicate, che spesso abbracciano o circondano a spirale il corpo del recipiente e denotano un gusto estetico ancora attuale.
Molto presenti sono poi gli svariati tipi di boccali, ciotole e piccole tazze, che spesso si rinvengono integre grazie al loro piccolo ingombro. Pure in terracotta sono, in ordine di frequenza di reperimento: pesi da telaio, fusaiole, rocchetti, mestoloni per il trattamento del bronzo fuso, piatti con bordo appena alzato, "zuffoli" usati come soffioni per il fuoco, dischetti rotondeggianti il cui uso può essere quello di pegni per giochi, e i cosiddetti "oggetti enigmatici", piccoli segmenti rettangolari con segnature e punteggiature impresse prima della cottura. A puro titolo di curiosità si può citare il diffusissimo uso di un legante adatto a stagnare od aggiustare i recipienti in terracotta, anche per rotture che fendono tutto il loro corpo. Si tratta dello stesso materiale usato per fissare strumenti di selce in impugnature lignee, od ornamenti a vari supporti.
Varie piccole formelle di tale collante, con forma che ricorda quella dello strobilo di abete, sono state reperite negli strati, ed un'analisi delle stesse le vorrebbe composte di gomma di tabarinto commista a qualche macinato indeterminabile
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Giacomo Cis

GIACOMO CIS
NOBILE E GENIALE TEMPRA DI COSTRUTTORE
Nei tempi remoti, laboriosi abitanti di regioni ricche di fertili terreni sentirono presto il bisogno di dedicare e riservare una «striscia di terreno» ai traffici, parte per il loro paese e parte per luoghi lontani, con cui dovevano attuare scambi di beni indispensabili, soprattutto per il lavoro ed il sostentamento quotidiano. Nacquero così nel mondo le prime «vie», formate in modo primitivo dal passaggio, dal calpestio dell'uomo e degli animali, e, grado grado, aperte e battute fino a ridurle sempre più e meglio praticabili.
In progresso di tempo, tali vie furono cosparse di frammenti petrosi (la «lapidibus via») formandosi, in superficie, uno strato di materiale arido, atto ad impedire la 'formazione del fango e di profonde ormaie; ed ecco la «strada'» (la «via strata» dei Romani, dal verbo sterno, stravi, stratum= stendere>, munita, in seguito, di selciatone (il moderno «sottofondo», e dì lastricato (stratura), a seconda delle possibilità e delle crescenti esigenze del transito, che,
per molti anni, seguì sui terreni meno accidentati, lungo i corsi d'acqua fino al loro sfocio nel mare, dove si poteva ricorrere all'ausilio della navigazione, e, solo più tardi, attraverso i valichi battuti dalle prime peregrinazioni di popoli. Vera presa di possesso della crosta terrestre, impronta magnifica del crescente regno umano, <antichissimi commoventi segni -come scrisse nel 1941 Giovanni Papini - delle riforme che l'uomo impone alla Terra>.
Poco consistenti furono le strade dei Cartaginesi e dei Fenici, laddove i Romani seppero costruire per primi, estesi, perfetti tronchi stradali lastricati, con scambi per i pedoni e rotaie, (orme che, com'è bene ricordare, suggerirono, verso il 1830, l'idea delle odierne <strade 1cr-rate>); rotaie dovute al bisogno di offrire una sicura guida alle ruote dei carri. La prima strada magistralmente costruita è la «Via Appia> di Claudio Appio(a. 213 a. C.), da Roma a Capua, larga 8 m., cui seguì quella degli Appennini, mentre al tempo di Cesare, Roma era stata ormai congiunta con tutte le Capitali dell'Italia Antica e con i principali centri delle provincie, superando anche vari valichi alpini. Più tardi tutte queste strade furono man mano inghiaiate e dall'anno 100 a. C. selciate o lastricate, mentre sì cominciò a disporre lungo il loro percorso posti di scambio per gli attiragli, muniti anche di cavalli di rinforzo e di carri, dato che le prime strade dei Romani, ricche di lunghi rettilinei, non temevano nemmeno le pendenze oltre il cento per cento, contando certamente sulla maggior robustezza d'uomini e d'animali di quei tempi
Fin qui i primi grandi Maestri.
Vediamo ora come si sviluppò, dopo le abbondanti impronte lasciateci dai Romani, la rete stradale del Trentino e più specialmente quella delle zone atlorno al Benaco, dove, poco discosto da Riva, a Bezzecca, il 12 giugno 1782 nacque Giacomo Cis da Giacomo ed Elisabetta Santolini Moret di Tiarno dì Sotto, sposatisi il 10 febbraio 1777.
Egli usci da una dette tante tipiche famiglie tridentine, in cui nessuna distrazione, e nemmeno il forte lavoro esteso dalle stelle del mattino a quelle della sera, poteva disto-gliere i genitori da quella che era la loro principale missione: I'educaziòne severa quanto affettuosa della prole. E molti furono i casi in cui questa educazione era addirittura innata nella stirpe.
Da esperto mulattiere e carbonaio quale era stato già il padre suo, Giacomo, fin dalla giovinezza ottimo autodidatta, assurse ben presto, per intrjnseche qualità d'animo e pronta in. intelligenza, a nobile figura di vero e proprio Patrizio. Ciò risulta lampante a chi guardi la chiara e caratteristica sua effige.
Fu così che Giacomo Cis potè aspirare alla mano della Contessina Gioseffa Pompeiati di Trento e sposarla il 29 settembre 1807, a 25 anni di età, venendo poi presto a stabilirsi a Riva, dove mori il 3 gennaio 1851, dopo la morte della moglie, avvenuta già il 13 agosto 1849.
Egli godette la stima delle personalità più spiccate del tempo suo in tutto il Trentino, dalle quali fu tenuto in grande onore. Lo dimostrano appieno gli scritti che più innanzi si riproducono.
Ai tempi dei Romani nessuno ardì incidere una benché modesta strada lungo le im. pervie pareti rocciose fra Riva e lo sfocio del T. Ponale nel lago di Garda. (Notabene: allora si sarebbe dovuto lavorare con l'ausilio del fuoco e dello scalpello, non esistendo ancora gli esplosivi). Si mirò, invece, ad evitare l'ostacolo col percorso molto più lungo di Riva Campi -Bocca (o Passo) di Trat - Vai Sorda - VaI Concei1 fino all'abitato di Lenzumo, con prose­cuzione, per la Bocchetta alle Gombie, verso Val Molini - Plagna - Castello di Tiarno di Sotto. Bocca di Giumella - Por, nelle Giudicarie Inferiori, - Condino e Creto, attraverso i Passi di Rango e di Giovo.
Altra via: da Tremosine al passo di Notta, con discesa a Pur - Legos - Molina - Bar­cesimo - Passo Giumella di Biacesa - Campi - Riva; ma si trattava dì strette e malagevoli mulattiere, a forti pendenze.
Non si hanno notizie attendibili sulle vie di comunicazione esistenti nel Medio Evo; si sa solo che, ancor prima del dominio Scaligero (XIV secolo), esistevano già delle mulat5 tiere fra i vari villaggi, e che gli Scaligeri avevano fatto ampliare il porto del Ponale per rendere più comodo e sicuro l'accesso ai lago dalla detta Valle.
Della strada romana Riva Bocca di Trat - Tiarno - Bocca Giumella - Por si erano valsi i Veneziani nel 1430 per far giungere armi e vettovaglie a Brescia.
lì Capitano visconteo Nicolò Piccinino, forte di 400 tanti e di 100 cavalli, tentò di impedirlo, ma fu sconfitto dal Condottiero veneziano R. da Sanseverino, che disponeva di 400 fanti e 200 cavalli. 1 Milanesi trovarono la morte in una valletta presso la Rocca di Len­zumo, laterale alla Vai Concei la quale conservò poi il nome dl <VaI dei Morti>.
lì dominio di Venezia dùrò ivi fino al 1509 e valse a migliorare lé condizioni della strada della Val di Ledro e del Porto alla foce del T. Ponale, nonché a far sorgere, lungo il Ponale ed in qualche villaggio della Valle, ferriere e fabbriche di cappelli, di cui quella di Tiarno di Sotto si mantiene ancora oggidì, ma quale fatbrìca, soprattutto, di pantofole.
Nel 1703, durante la guerra di successione spagnola, i Francesi entrarono nella VaI di Ledro per <la via romana Passo di Notta - Legos. Questa stessa via fu pure utilizzata dai Francesi nel 1796, durante la guerra napoleonica.
Negli ultimi due secoli, invece, fu posto mano, nel 1746, alla costruzione d'una nuo­va via mulattiera lungo la destra del Ponale, dal Porto. Ponale (primo importante golfo del Garda a sud--ovest di Riva), fino al ponte di <Porcil» sotto Biacesa, continuata in seguito lungo tutta la Valle di Ledro. Tratti di questa mulattiera, furono poi grado grado ricostruiti con le caratteristiche delle <strade carrozzabili>, e precisamente: nel 1837-1838, il tratto Fonte di Porcil - Prè - Molina di Ledro; nel 1839, il tratto Molina - Pieve di Ledro.; negli anni 1840 1842, il tronco Pieve 41 Ledro - Tiarno dì Sopra. Nel 1843, da Tiarno di Sopra al confine con Storo; nel 1846 fu aperta la via detta dell'Ampola, lungo il torrente Palvico; affluente del Chiese, oltre lo spartiacque fra i laghi del Garda e d'Idro, da Tiarno di Sopra sino a Storo e Cà Rossa, oltre il fiume Chiese, sulla Tione - Caffaro; nel 1847 la mulattie­ra di VaI Concei, da Bezzecca a Lenzumo. Nel 1849 fu collocato il cippo di confine fra Le­dro e Storo in VaI d'Ampola, e quindi fra i distretti di Riva e Tione.
Nel 1881 fu resa carrozzabile la tratta Pieve di Ledro - Locca (primo villaggio che s’ incontra entrando da Bezzecca in VaI di Concei); nel 1894 fu rettificato l'andamento della strada di VaI di Ledro presso Mezzolago, trasponendolo sulla sponda del lago di Ledro.
Nel 1848 i Corpi Franchi vi giunsero dalla VaI d'Ampola e dal Passo di Notta.
Il 18 luglio 1806 i Garibaldini entrarono nella Valle di Ledro, parteattraverso il Passo di Notta fino a Legos e Pieve, mentre, il 20 luglio susseguente, la rimanente parte del Corpo di spedizione, con alla testa Garibaldi stesso, v'entrò per la Valle d'Ampola, dopo ridotto al silenzio il forte d'Ampola dai famosi cannoni del maggiore Dogliotti trascinati, con la guida e l'aiuto di vari patrioti di Storo, fin sul Doss6 ché sovrasta la valle poco più a nord-est di quel Borgo. E furono i cennati cannoni del celebre puntatore maggiore Dogliotti, che resero possibile la vittoria di Bezzecca del 21 luglio 1806.
Nel fervore dei precitati svariati allacciamenti stradali, cui le laboriose popolazioni della Valle di Ledro si sentivano spinte ormai da impellenti bisogni, è ben logico che, nella mente chiara e lungimirante di Giaco,no Cis, maturasse la concezione del progetto, (molto arduo per quel tempo, in cui mancavano affatto i contributi della cessata monarchia Austo-Ungarica, che, anche per la strada delle Giudicarie, s’era fatto pagare perfino la polvere pirica, di cui teneva il monopolio), della apertura d’una comunicazione diretta, la più breve possibile, fra la Val di Ledro ed il Garda, con mèta la città di Riva.
Ed é pur logico che Giacomo Cis, ch'ebbe l'animo, il coraggio e lo spirito d'iniziativa del vero <precursore>, sentisse vivissimo il desiderio di allacciare direttamente la diletta sua Valle con la piana del Basso Sarca, del quale gli erano pure note le bellezze naturali; ma soprattutto con Riva, che il poeta Giovanni Prati aveva già appellata
"Città gagliarda, Città cortese
"Perla dell'Italo nostro Paese"!
Senza dubbio, Giacomo Cis, nell'ideare tale allacciamento, affrontando aIl'uopo il ri­pido, scosceso e spesso strapiombante pendio roccioso del Monte Oro, immaginava già, e pregustava quegli imponenti e superbi panorami sul <Lago dell'eterna primavera», cui il Creatore profuse incomparabili bellezze naturali sui monti e sui pittoreschi centri abitati da cui è circondato. Tutti sappiamo che il tronco di strada più cercato e 'percorso a piedi dagli stranieri >2 con grande sopportazione delle noie della polvere dei tempi andati> è proprio quello del Ponale.
Giacomo Cis, dopo matura preparazione, predisposto tutto fin dal 1847, si accinse di nuovo verso il 1849, dopo spentasi la profonda e generale eco delle rivoluzioni scoppiate a Parigi ed a Vienna nel 1848, alla realizzazione del progetto da lui ideato e' fatto redigere e, superando difficoltà d'ogni sorta, gli era già quasi riuscito di aprire al transito nel 1851 la nuova arteria, cui nessuno prima di lui aveva pensato, ritenendo inattaccabili le pareti del Monte Oro e della Rocchetta, quando il 3 gennaio dei detto anno lo raggiunse improv­visamente la morte.
Con i mezzi allora a sua disposizione Giacomo Cis non aveva potuto certamente ripro­mettersi un modello di costruzione, anche in fatto d'andamento planimetrico e di larghezza costante, giacchè, per evitare spese enormi, il suo progettista dovette spesso ricorrere allo sfruttamento di tutte le possibilità di economie offerte, tratto per tratto, dalla varia configu­razione delle' pareti rocciose, nei 3350 m. circa di percorso, che intercedono fra il Ponale e Riva, e inoltre, nei tratti più scabrosi, ad una riduzione di larghezza anche fino a poco più di 3 metri, (come è pure accaduto lungo la Trento - Sarche - 'Tione), nonchè a curve"di raggio piuttosto piccolo.
Corretto ne fu, invece, fin d'allora, l'andamento altimetrico con pendenze moderate.
Tutto sommato si può ben asserire che Giacomo Cis, dati i mezzi di 'trasportò del suo tempo, con la sua fortezza d'animo e perseveranza fornì al'la sua Valle uno sbocco àdeguato ai suoi reali bisogni, e, al paese, un tronco di strada carrozzabile di prim'ordine sotto ogni riguardo, ma specie dal lato turistico e panoramico, per cui gli va riconosciuto grande imperituro merito.
A lui si deve poi la più breve comunicazione d'allora fra Trento e Brescia. Fa d'uopo accennare qui a coloro che furono gli interpreti del pensiero cd i colla-boratori affezionati di Giacomo Cis.
Quali progettisti: l'i. r. Ingegnere aggiunto Giovanni Piva di Pergine1 per la Bezzecca Lenzumo, in Val Concei, (nel 1847) e per la strada del Ponale, (184Q7t 1850» il Perito Buttarini, per la strada dell'Ampola (1846>; Il Perito Carlo Tonini per la Pieve Locca (1881>; il Geometra Martino Ambrogio Bondi, per la Prè - Biacesa (1843 - 1847); il Geometra Giu­seppe De Carli per la rettifica di Mezzolago (1894 - 1896>.
Alle espropriazioni per la strada del Ponale provvidero il Geom. Martino Ambrogio Bondi ed il Perito Carlo Tonini nel 1851.
Fra gli esecutori dei lavori di costruzione meritano d'e½.'sete ricordati Giovanni Maria Pialorsi di Vestone, per le strade dell'Ampola (1846> e del Ponale (1849 - 1851'); Giovanni Nicolussi di Luserna per le strade Pré e Biacesa (1843 - 1&47) e Bezzecca - Lenzumo (1847); Antonio Nicolussi di Luserna per la Pieve - Locca (1881).
Vicende delta Strada del Ponale e delle Valli di Ledro
e dell'Ampola (Riva – Storo), dopo la costruzione
La lunghezza totale di essa è di 33 chilometri, di cui i primi 3,50, da Riva fino alla valle del Ponale, costituiscono la parte maggiore e di più difficile costruzione.
L'andamento altimetrico, come si è già notato, è regolare, con pendenze della livelletta varianti fra il 4,50 ed 'il 6,00 per cento, però con prevalenza del 4,50. L'andamento planimetrico, com'è naturale, é sempre piuttosto tortuoso, poichè l'originario tracciato ha dovuto seguire la configurazione delle pareti rocciose del Monte Oro e di quello della sua propaggine, (Rocchetta), con rientranze nei numerosi valloncelli e specie nel vallone del Tor­rente Sperone a 1950 m. da Riva.
Per attentenuarne nei limiti del possibile, la tortuosità, il progettista di Giacomo Cis previde originariamente la perforazione di 3 gallerie, delle dimensioni massime di metri 5,00 x 5,00 circa e delle lunghezze rispettivamente di m. 31; 70; e 100, che, oggidì, dopo i nuovi lavori, recano, progredendo da Riva, i numeri 2, 3 e 5.
Il piano viabile era a semplice ciottolata; il bordo verso il lago, difeso da comuni muri di sostegno e di parapetto, ed in qualche punto da ringhiere di legno; verso monte: difeso, qua e là, da muri di controriva.
Di manufatti importanti, oltre ai consueti tombini per lo scarico delle acque raccolte glientisi lungo il bordo di monte,. non vi era che il ponte di legno sul Torrente Sperone aI chilometro 1,950.
L'intera strada del Ponale e della Valle di Ledro fu poi mantenuta a cura degli in­teressati Comuni, e dapprima. a datare dal 1833, per mezzo d'un «Comitato stradaleN, a capo del quale; per circa 18 anni, fino alla sua morte, fu Giacomo Cis.
In seguito la manutenzione di questa strada, com'era stato fino alicra di quella del l'Ampola verso Storo, 4" curata direttamente dai rispettivi Comuni, e, negli ultimi anni prima del 1913, con un modesto contributo annuò alle relative spese, concesso dall'Austria, ed esteso pure ad altre strade consortili, come per esempio quella della Rendena (divenuta statale nel 1908) e la Pinzolo - Campiglio.
Nel 1891 vi transitarono le prime automobili private, laddove, nel 1911, vi furono isti. tuite le corse regolari delle automessaggerie postali.
La memorabile alluvione del 6 novembre 1906 causò gravissimi danni alla Riva - Storo, ma più specialmente al tronco dell'Ampola, di cui un tratto di oltre 3 Km., con i due ponti «Stigolo> ed «alla Fortezza d'Ampola», andò distrutto completamente. Il corpo stradale, con i detti due ponti, fu ripristinato negli anni 1908 1912, parte a cura dell'Ufficio Tecnico Pro­vinciale ed in gran parte dagli Uffici Edili statali già esistiti a Tione e Rovereto.
Dopo la presa di possesso della piana di Storo da parte dell'esercito italiano nel 1915 la Riva - Storo iti mantenuta, per la durata della prima guerra mondiale, parte dall'Esercito medesimo, finci circa a Tiarno di Sopra, e pel rimanente dall'esercito austriaco.
Dopo la redenzione (fine 1918) l'intera arteria fu presa in consegna e mantenuta, quale statale, dalla Sezione LL. PP. dei Governatori militare e civile di Trento, e ciò fin verso il 1924, quando, in forza dell'emanazione del D. L. 15 novembre 1923 n. 2506, fu classificata nella seconda classe (disposizione confermata dal D. L .23 ottobre 1924 n. 1994), ed assunta così dall' Amministrazione Provinciale nel novero delle strade provinciali.
Nel breve periodo, durante il quale restò affidata alla cennata Sezicre LL. PP. ed indi al Genio Civile, neo istituito Ufficio di Trento, vi furono promossi i consueti lavori di manutenzione, intetisificativi nel settembre - ottobre 1921, in attesa del passaggio dei Sovrani; fu acquistato e trasformato in casa-cantoniera il fortino all'imbocco dell'allora prima galleria e, in seguito al parziale franamento d'un tratto di piano stradale, insistente in 'parte su un aggetto della parete rocciosa> fu perforata una nuova galleria, allora la quarta, della lun­ghezza di 160 m.; rna, per la scarsezza dei mezzi a disposizione, della sezione ridotta di m. 4.50 x 4,50 (progressiva Km. 2.250); inoltre vi furono eseguiti pochi saltuari allargamenti mercè demolizione di rocce, e qualch restauro di murature, con una spesa globale di circa L.500,000 (valuta 1922).
Ma le ulteriori maggor e più importanti opere di sistemazione e di conservazione della strada di Giacomo Cis (Ponale) sono dovute alla passione ed alla solerzia dell' Uf­ficio Tecnico Provinciale cd in particolar 'modo agli ingegneri Franch, de Prez, Zadra ed al defunto ing. Lugnani, i quali, dal 1924 fino ad oggi, hanno completamente sistemato -con ingenti scavi di roccia, muri di sostegno e di controriva e "di parapetto di vari tipi, anche su arco-morti, nonchè con massicciate e cunette, secondo le migliori caratteristiche di una moderna strada carreggiabile, della larghezza costante di m. 5,50, quivi compresa la cunetta - ben 2.206 dei Km. 3,350 di tale strada, i quali ora attendono ancor solamente la bitumatura, che 'vi sarà eseguita quanto prima. Restano da sistemare poi Km. 1.144.
Inoltre hanno perforato altre due gallerie (oggidì la I e la IV) rispettivamente di m. 70 e 68 e delle sezioni di m. 6x6 e 5,50x5,50; hanno provveduto all'allargamento ed al ri­vestimento d'una delle tre gallerie di Giacomo Cis, la prima divenuta oggidì l'a' seconda, portandola alle dimensioni, adottate ormai quale norma, di m. 5.50x5.50.
Tutto questo con una spesa complessiva di L.51.500.000 (valuta d'oggi).
Da tre le gallerie della strada del Ponale, qtiali erano originariamente, sono aumentate', fino ad oggi, a sei e precisamente:
La prima, di m. 70, sezione 6x6, nuova, al Km. 0~350.
La seconda di m. 31, sezione 5.SOxS.50, vecchia, ma allargata ora e rivestita, al chilometro 0.730.
La terza di m. 50, sezione SxS, vecchia, al Km. 0.956.
La quarta di m. 68, sezione 5.50x5.50, nuova, al Km. 1.780.
La quinta di m. 05, sezione 5x5, vecchia, al Km. 1.940.
La sesta di m. 160, sezione 4.80x4.50 del 1923, al l<m 2 250.
L'Ufficio Tecnico Provinciale" ha ora in progetto un'altra galleria della lpnghezza di 120 m. e della sezione normale di m. 5~50x5 50, la settima, al km. 1.140, poco prima della valle del T. Sperone, con lo scopo di eliminare delle curve e controcurve; inoltre tutti i la­vori di scavo di roccia di muratura e di massicciata ecc., indispensabili per il compimento della razionale sistemazione dei rimanenti mille metri della strada del Ponale. È pure nelle intenzioni dell'Ufficio medesimo di ridurre alla sezione normale, ormai generalmente adottata, di m. 5.50x5.50, la sesta galleria, costruita nel 1923 con scarsi mezzi dalla cessata Sezione LL. PP. del Governatorato della Venezia Tridentina.
Mercè tutti questi altri lavori aggiuntivi, per cui occorrerà un'ulteriore spesa di poco più di 30 milioni di lire, la strada del Ponale, coraggiosamente ed arditamente ideata e vo­luta da Giacomo Cis, vero precursore in tempi e in condizioni veramente difficili, sarà por tata al livello d'una modernà e sicura strada carreggiabile, in condizioni dì visibilità molto migliorate e della larghezza costante di m. 5.50, compresa la cuncttta, larghezza che, date le enormi difficoltà opposte dà la configurazione della zona pedemontana de I Monte Oro, va considerata insuperabile
Il piano viabile sarà poi liberato stabilmente dalla polvere molesta e dannosa, non temuta però in passato dai molti forestieri che anelavano risalire la strada a piedi, per poter godervi i superbi panorami offerti dall'ampio bacino del sottostante lago di Garda.
Lo spirito grande di Giacomo Cis gioìrà certamente dell'ampio riconoscimento della celebrazione centenaria della opera sua, che un patriottico Comitato sta organizzando; ma soprattutto per il gran bene che la sua mirabile iniziativa ha già apportato nel corso di un secolo e continuerà ad apportare per l'avvenire alla natia sua 'Valle, iI Trentino ed all'Italia.
Chi scrive fece del suo nieglio, fin dal 1921, per viemaggiormente valorizzare la strada di Giacomo Cis, insistendo perchè essa, da Riva al ponte a volta sul torrente Ponale, ripristinato a cura del Genio Militare subito dòpo la vittoria, fosse compre£a, quale primo tratto, nella arteria Riva-Limone, ed aIl'uopo fece approntare apposito progetto per l'intero tronco fino alla località <Reamaì>, confine con Brescia; progetto del quale si scorge ancora il tracciato inciso lungo le pareti che, da sotto Pregasina, sovrastano lo specchio del lago. Tale progetto, regolarmente approvato nel 1922 dal Ministtro dei LL. PP., offriva l'oc­lcasione di poter anticipare di vent' anni circa, con notevole risparm'io rispétto alla traccia b~;sa, la sistemazione della 'strada del Ponale, con enorme vantaggio pure per la Valle di Ledro, di raggiungere> a sud del Ponale, un andamento meno accidentato 'e di ridurre considerevolmente il numero delle gallerie; inoltre di evitare i pericoli derivanti dalla costru­zione d'una nuova arteria sotto quella vecchia. Allora imperava il fascismo e così fu d'uopo abbandonare ogni lo4a, in cui il 'promotore era, purtroppo, rimasto isolato, ad onta della ri-~ levante economia prospettata. Superata di molto la globale spesa di 27 milioni prevista nel 1928 la Direzione dei lavori ottenne che la Gardesana Occidetitale fosse sostituila - nel novero delle strade statali> non superabile, allora, nella lunghezzà comples'siva di tutta la rete nazionale - alla vecchia, unica arteria nazionale Sarche~Caffaro, divenuta così in gran parte provinciale. Questo perchè la Gardesana Occidentale, in fregio al lago, fosse compiuta e poi mantenuta e, via via, consolidata a spese dello Stato.

L'illuminata opera di Giacomo Cis fu a suo ternI)o ricordata con riconoscenza dai Co­muni interessati mercè la posa di una lapide di m. 1,38 x 1,98 nella vecchia terza galleria, oggidì la quinta. La lapide che, dopo la redenzione, fu rimossa e riposta in opera in posi­zione più visibile al Km. 0.450, reca la seguente epigrafe:
QUESTA VIA - GIACOMO CIS DA BEZZECCA - ARDITAMENTE lDEÒ - E DI TANTO CONCETTO - CHE MOLTI DICEANO DELlRIO I MUNICIPI I - Dl LEDRO DI RIVA E DI STORO - SUASE - ONDE LA GRANDE OPLRA - A SPESE DEI COMUNI - NEL MDXXXKLI FU COMPIUTA - COMUNICAZIONE CON BRESCIA E MONUMENTO DELLA COMUNE PERTINENZA ROMANA - ALLA TRIBÙ FABIA.
A ricordo della prossima celebrazione centenaria, I' Amministrazione Provinciale ha' fatto murare sul portale della prima àalìeria (nuova) - lato Riva - un'altra lapide con ap­propriata epigrafe dettata dal prof. Luigi Menapace, che dovrà ricordare ai posteri le ono­ranze tese a Giacomo Cis nel primo centenario della sua morte e dell' apertura al~ transito della strada de; Ponale, da lui ideata e fortemente voluta.

LA PROVINCIA DI TRENTO - APRE LA STRADA DI LEDRO - A PIÙ INTENSA VITA -COMPIENDOSI IL SECOLO DELLA COSTRUZIONE ARDlTA E GENIALE – CHE GIAQOMO CIS IDEÒ - 1851 - 1951

Per quanto concerne le altre principali vie di comunicazione della parte cccidentale del Trentino si accenna qui alle strade delle Giudicarie, Trento - Tiene - Caffaro, ir~ cui, al1a « Ca' Rossa», mette capo la Riva - Storo, e della Rendena Tione - Pinzolo, che furono co­struite a tutte spese dei Comuni delle due valli, fra il 1850 ed il 1856; la Pinzolo-Madonna di Campiglio (vecchia) verso il 1870 (per iniziativa di un benemerito Giudicariese, Giam­battista Righi, lo scopritore della Stazione alpina di Madonna di Campiglio, emulo di Gia5 como Cis, e che la costruì a tutte sue spese); infine la Campiglio-Campo Carlo Magno-Di­maro in VaI di Sole, verso il 1890, per opera del valente ingegnere trentino Dott. Vittorio de Dal Lago, della nota patriottica Famiglia di Cles.
Trento, il 17 maggio 1951
Ing. G. ADAMI


Galleria Agnese

Storie di Riva del Garda
29 settembre 2011 alle ore 20.42
10 marzo 2008 - Dal quotidiano "L'Adige"del 9.3.2007 -
di Vittorio Colombo
«Agnese» è una galleria. Un tunnel lungo oltre tre chilometri e mezzo. Agnese è anche una donna tosta che oggi vive gagliardamente i suoi 87 anni.
A dirla tutta, l'Agnese, donna e sindaco di Molina di Ledro, c'era ben prima della galleria. Anzi, è arcinoto che quella galleria che ha aperto la strada, e non solo metaforicamente, allo sviluppo ed al progresso delle Valle di Ledro, è proprio opera dell'Agnese, donna e sindaco, quasi l'avesse scavata lei con le proprie mani. Tant'è che, con affettuosa e colorita espressione, la galleria che dal 1998 collega la Busa dell'Alto Garda con la Valle di Ledro, è stata consegnata alla storia popolare come «El bus de l'Agnese».
Questa, vent'anni dopo, è la storia di una donna, all'apparenza normale ma in realtà animata da sacro furore, che ha vinto la montagna. L'ha proprio bucata, in pratica da sola perché si contavano sulle dita di una mano quelli che allora scuotevano la testa alle sue «pazzie». Proprio lei ha bucato la Rocchetta, galleria superiore appellata l'Agnese, e bucato il Tombio, galleria inferiore nota chiamato «Dom». Che non vuol dire parroco ma è solo il nome della località rivana.
Tutto ebbe inizio con un terremoto. La terra tremò alle 6.45 del 13 dicembre del 1976. Un regalo di S. Lucia da fine del mondo. «Ero sindaco dal febbraio del '76» ricorda Agnese Rosa che incontriamo nella sua bella casa di Legos, la frazione alta di Molina di Ledro. Sotto il campanile della chiesa, i tetti delle case. Il caminetto è acceso, perché fa ancora freddo e la notte prima la neve ha sbiancato gli abeti poco più in alto. L'Agnese è in gamba. Senza età, maglietta vezzosa celestino-cenere, i pantaloni scuri. I capelli a caschetto, bene a posto, e gli occhialoni che non fermano i guizzi dei suoi occhi chiari, azzurro cielo ledrense.
L'Agnese non racconta. Rivive. E le sue parole sono cariche di gestualità. Si dispera, impreca, prega, si mette le mani nei capelli e la testa gli cade di schianto sul tavolo, nel ripercorrere i momenti più drammatici, per poi risalire fiera e combattiva. Perché alla fine ha vinto lei. Ha vinto la montagna, ma anche lo scetticismo, la diffidenza, la solitudine, la disperazione di certi momenti. Ed ora tutto ricorda.
«La scossa durò sei secondi; qualche secondo in più e sarebbe venuta giù la Valle. Fortuna volle che fossero tutti a letto. In pochi istanti il paese era impazzito. Vetri, cornicioni, lampioni, tutto a terra. Ma le case hanno i muri antichi e i tetti in legno hanno fatto da elastico. Hanno visto il campanile della chiesa, 36 metri, che oscillava come un pendolo. E poi le urla: "la strada, la strada, è crollata la Rocchetta!" Corriamo a Biacesa, la strada del Ponale non c'è più. Una frana enorme se l'era mangiata».
Nessuno si muove. L'Agnese va da sola. Si arrampica sui sassi e va sotto, dove passava la strada per scendere a Riva. Si ferma sgomenta, sotto i piedi per decine di metri solo una voragine. E i toni sono da vangelo apocrifo. «Barriere sradicate, voragini, macigni. Pregando e piangendo - si dispera ancora oggi l'Agnese, - ho invocato la Madonna. Ed è lì, in quel momento, che ho avuto la folgorazione: una galleria. Per vivere la Valle di Ledro una galleria deve bucare la Rocchetta».
L'Agnese alza la mano sinistra. Ha il polso fasciato, vicino all'orologio, da un rosaio bianco. «Ecco - dice - quello che muove le montagne. La fede le muove e perfino le buca».
I tempi erano terribili. Mai una donna prima dell'Agnese aveva osato diventare sindaco e gli uomini, anche molti dei suoi amministratori facevano girare l'indice puntando la tempia e dicevano «L'è propi mata!».
Ma la disgrazia era grande. La strada del Ponale, una panoramica che è un balcone strepitoso sul lago, cadeva a pezzi. Le frane erano all'ordine del giorno, studenti e lavoratori restavano bloccati in Valle. Il ledrense era costantemente a rischio di isolamento. A beh, ma bucare la montagna… e con una donna per giunta.
«La Madonna ha voluto che trovassi in Provincia il Grigolli - dice l'Agnese. - Il presidente ci ha creduto e mi ha detto parti, vai ch'io ci sono».
L'Agnese va alla guerra. Si carica a mille e inizia il più tenace e devastante bombardamento che gli uffici provinciali ricordino. «Stavo al telefono giornate intere - ricorda l'Agnese - ma in Provincia c'era chi dormicchiava. Così andavo al Palazzo e attaccavo. Avevano nascosto in un armadio l'apparecchio «battiquote» necessario per i rilievi. Volevano farmi credere che era a riparare. Io ho aperto l'armadio e l'ho scoperto. «Bugiardi, ipocriti», ho gridato, una Valle muore, in nome di dio svegliatevi! Grigolli mi voleva bene, il dottor Armani, capoufficio, mi appoggiava; dei sindaci il solo che credeva in quello che facevo era Oliari di Tiarno di Sopra. Io stringevo il mio rosario e battevo i pugni, sui tavoli e sulle teste». Ci volevano i soldi e Grigolli mise in moto il ministro dei lavori pubblici Gaetano Stammati.
Gli fecero fare un volo con l'elicottero della Provincia, il 28 ottobre del '78, sopra le macerie della Ponale. C'erano con me ad attenderlo al campo Benacense Grassi, deputato delle Sarche e il rivano Mario Pollini assessore provinciale. Stammati non era sulle sue quando scese dall'elicottero. Grassi sussurrò che se l'era fatta sotto per la tremarella. Ma il ministro romano, scosso anche dalla vertigine e dal furore del sindaco donna disse all'Agnese: «Ho visto la sua valle, io le darò la via, perché la sua valle possa continuare a vivere».
La Provincia, tolto dall'armadio il battiquote, fa i rilievi, e l'Anas prepara il progetto. Il 26 dicembre Grigolli annuncia che ci sono 13 miliardi e 300 milioni. «La Madonna l'ha toccato», dice l'Agnese è solo all'inizio della sua infinita guerra contro la montagna. All'asta partecipano 146 ditte. Vince la Coge ma ha un ribasso troppo forte, e i lavori vanno alla seconda la Codelfa.
Partono i lavori. Le ruspe spianano un mucchio di terreno, tanto per gradire, poi sul posto resta un ometto che guarda un po' verso il ledrense un po' verso il lago. L'Agnese va fuori di testa dall'incazzatura, finché il 21 febbraio bussa al Municipio l'impresario Chini di Brescia che annuncia senza fronzoli: «Il tunnel lo faccio io!». La Codelfa andava a fallire, il Chini aveva fatto tunnel in Spagna e in Turchia. Il vicesindaco Silvano Dassati cominciò a porre questioni. «Taci che il sindaco sono io, comando io!», tagliò corto l'Agnese. Ma c'erano enormi problemi che disciplinavano i rapporti tra Anas e Codelfa. «Io scendevo tutti i giorni - ricorda, - dove le ruspe erano ferme e piangevo e pregavo S Giuseppe: "diglielo tu alla tua sposa che tu sai come dirglielo". Fatto è che poi sia il Dassati che l'Anas cominciarono a credere che tutto fosse possibile.
Chini portò una macchina infernale che si chiama Jumbo. Una sorta di zanzarone meccanico, lungo sedici metri con braccia di quattro metri. Faceva un buco centrale e poi buchi a raggiera, e la dinamite faceva squarci che era un piacere. Tre turni di lavoro, 24 ore su 24, la galleria andava avanti 16 metri al giorno.
Ma era troppo bello per essere vero: il 21 luglio dell'82 la Codelfa che aveva passato la mano alla Chini va in concordato provvisorio, l'Anas annuncia che si devono chiudere i cantieri e chissà se potranno mai essere riaperti. Parte l'azione legale, l'Agnese ingaggia il meglio degli avvocati milanesi. Si supera così anche questo scoglio e il 4 maggio dell'84 la prima galleria, 3.650 metri da Biacesa all'Albola, è finita. Ma, siccome Calvario deve essere, arriva un'altra grana enorme. Un viadotto avrebbe dovuto scendere su pali di cemento fino a Riva. Ma il terreno è ballerino, le prove dicono che non c'è stabilità.
Si fa un nuovo progetto per una seconda galleria. Si arretra di 150 metri. Viene disegnata una curva quindi si decide di scavare nel Tombio per 1.100 metri. Si scava in condizioni infernali sia da nord che da sud; in particolare verso Riva la roccia è impregnata d'acqua. «Sono stati uomini meravigliosi, hanno dato l'anima lavorando nel fango, tra infiniti disagi, in condizioni di pericolo. Si procedeva con tettoie e travi interni di protezione per 6 centimetri al giorno. Ebbene - dice l'Agnese - io continuavo a pregare: «Madonna fa che non si faccia male nessuno. Simili lavori, mi diceva lo stesso Chini, sono segnati purtroppo da lutti. É stato un miracolo, e lo dico in giorni come i nostri nei quali si parla di infortuni sul lavoro. Per fare le gallerie ledrensi si è lavorato per una decina d'anni, in condizioni drammatiche, e non si è fatto male nessuno. Questo - dice l'Agnese è oggi una della mie più grandi ragioni di conforto».
Il 4 maggio del 1988 i due scavi si incontrano alla perfezione. L'opera era alla fine. Ma - ricorda con rammarico l'ex sindaco, - non ci fu inaugurazione. I rivani erano furibondi. Infatti il collegamento con l'ingresso del tunnel doveva avvenire attraverso via Ardaro, dove c'era una strettoia giudicata pericolosa. Così per due anni le gallerie potevano funzionare solo per salire in valle, mentre si scendeva ancora dalla vecchia Ponale risistemata in qualche modo. Ma la situazione per la Ponale precipitò. Successe che un grosso camion, un bestione, sfondò il parapetto e rimase in bilico sullo strapiombo: ci lavorarono Rudy Rosa e altri della Valle per un sacco in condizioni di grande pericolo.
Poi fu miracolato l'allora sindaco di Riva Enzo Bassetti, dopo essere stato a Pregasina per i Santi: fermò la macchina a un centimetro da una frana enorme. 10 mila metri cubi di Rocchetta vennero giù e sparirono 60 metri di strada. E per la Ponale fu la fine. Le gallerie per la Valle di Ledro dal 1990 vennero aperte nei due sensi. Da quel fatidico 13 novembre, santa Lucia del 1976, erano passati 14 anni. La lotta di Agnese Rosa contro la montagna, la conquista delle gallerie, e l'inizio della nuova èra valle, hanno il sapore di una storia epica.



Famiglia Crosina

Vi avevo promesso di darvi notizie della famiglia Crosina.. Eccole
Dalla mia scheda in: Maria Luisa Crosina, Scheda in «Guida della Valle di Ledro», ed. Temi, Trento
Famiglia Crosina
La famiglia Crosina si stabilì a Tiarno di Sotto con ogni probabilità nel XVII secolo, provenendo da Balbido nelle Giudicarie dove si era rifugiata già alla metà del 1200 per sfuggire alla tirannide di Ezzelino da Romano, signore di Padova. In questa città, infatti, i Crosina, allora Crosna - il cognome attuale venne dato dall’imperatore Carlo V - avevano ricoperto cariche importanti: uno di essi vi era stato console al tempo dell’imperatore Enrico (1060 circa). Giunti nella nostra regione, entrarono a far parte dell’aristocrazia locale imparentandosi con buona parte della nobiltà trentina e distinguendosi in vari campi. Nel 1558 il medico Tommaso Crosina che si era trasferito a Trento e aveva sposato una Bonporto - il loro palazzo con lo stemma esiste ancora di fronte all’abside del Duomo - ricevette il diploma di nobiltà dall’arciduca Ferdinando d’Austria, dignità che nel 1675 fu elevata al titolo di baroni del S.R.I. con i predicati di Manburg (l’attuale Man alla periferia di Trento), Hausenheim, Mariastein e Miederpreistensbach. Il personaggio più di rilievo della famiglia fu Antonio (1581-1663), figlio di Tommaso, che scelse per vocazione la vita ecclesiastica: fu suffraganeo del cardinale Carlo Emanuele Madruzzo e nel 1647 fu eletto per acclamazione principe vescovo di Bressanone. Si distinse per lo zelo nell’istruire la gioventù, per le frequenti visite pastorali alla sua diocesi, per la pietà e dottrina. Morì in concetto di santità nel 1663 e fu sepolto nel Duomo di Bressanone; purtroppo la sua tomba non ci è stata conservata. Il ramo dei baroni Crosina di Trento si estinse con la scomparsa di Simone Felice consigliere reale, essendogli premorto nel 1762 l’unico figlio Giovanni Filippo. Simone Felice nel suo testamento del 19 gennaio 1775 nominò «eredi universali del suo cospicuo patrimonio gli orfani maschi della città di Trento» ordinando che il suo palazzo fosse ridotto «a comoda abitazione degli orfani»: era nato l’Istituto Crosina, oggi conosciuto come Fondazione Crosina-Sartori.
I capostipiti dei Crosina presenti a Tiarno giunsero in valle precedentemente al 1687; il ventisette agosto di quell’anno, infatti, il sacerdote Giovanni Crosina (o anche Crocina), oriundo delle Giudicarie e Pieve del Bleggio, cittadino di Riva, dove era cappellano della Disciplina e beneficiato Riccamboni nella Pieve di S. Maria Assunta, fece testamento in casa del notaio Sebastiano Olivario, lasciando dei beni a Giacomo, figlio del fu Pietro suo fratello, «oriundo delle Giudicarie presentemente abitante e convicino di Tiarno di Sotto», a Beatrice e Maria, figlie del fu Giovanni Crocina suo erede, alle chiese di Tiarno di Sopra e di Sotto e ad altre del Bleggio, tra cui, naturalmente, S. Giustina di Balbido. Cosa abbia spinto quel ramo della famiglia a trasferirsi in valle, rimane ancora oscuro: vi aveva dei possedimenti ereditati dagli avi? Una risposta potrebbe venire, oltre che dallo spoglio degli atti notarili dell’epoca, dall’identificazione delle località raffigurate alla base al suo albero genealogico conservato al Castello del Buonconsiglio di Trento e dalla decifrazione dei predicati nobiliari che sembrano riferirsi a toponimi. Ciò che sicuramente si sa, è che molti membri della famiglia Crosina, chissà per quali vicende, si distinsero posteriormente nel lavorare la pietra, in questo caso il granito, così abbondante in gran parte della vallata. Una tradizione familiare vuole anzi che essi fossero così abili e quotati, da venir chiamati a prestare la propria opera alla Corte di Vienna, e che si recassero per tale scopo a Praga ancora nella seconda metà dell’Ottocento. Pressappoco negli stessi anni, dei Crosina provenienti da Tiarno si trasferirono ad Arco - vi erano infatti celebri cave, con la pregiata pietra delle quali, l’oolite, vennero scolpiti molti monumenti famosi sia in Italia che a Vienna – per esercitarvi quell’arte che, da molto tempo ormai, è decaduta. Anche in Valle di Ledro non vi sono più scalpellini: l’ultimo d’essi fu il Bepi Crosina del ramo dei “Ballarì” (m. 1989); pure la vecchia casa di famiglia, «ricca di pregiati stucchi ed affreschi», come ricorda Bortolo Degara, è scomparsa: è stata distrutta da poco, per lasciare il posto ad una costruzione moderna.
M. L. C.
Maria Luisa Crosina, Scheda in «Guida della Valle di Ledro», ed. Temi, Trento



Esodo in Boemia

da "Comune di Ledro"
UN PO’ DI STORIA DELL'ESODO IN BOEMIA
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale la Valle di Ledro, parte integrante dell’Impero austro-ungarico, era zona di confine con il Regno d’Italia.
In seguito alla dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria la Valle di Ledro diventò il fronte che separava due eserciti, quello italiano schierato a sud della valle e quello austro-ungarico schierato sui monti a nord. Questa situazione comportava un evidente pericolo per l’incolumità della popolazione civile.
A causa della pericolosità della situazione giunse l’obbligo per gli abitanti della Valle di abbandonare i propri paesi per una destinazione sconosciuta. La mattina del 22 maggio 1915 la popolazione ledrense trovò le case tappezzate dalla Notificazione dell’Imperial Regio Capitano di Riva che ordinava l’evacuazione per il giorno successivo, da effettuarsi entro 24 ore.
Gli uomini in età di leva, tra i 21 e i 42 anni già allo scoppio della guerra, nel 1914, vennero arruolati e partirono per il fronte. “In 60.000 furono arruolati in Trentino, 12.000 non fecero più ritorno, sepolti nei cimiteri di guerra galiziani, nella Bucovina, sui Carpazi. Più di 14.000 rimasero feriti, 12.000 caddero prigionieri dei russi e rimasero isolati per anni dalle famiglie e dal resto d’Europa, anche dopo la fine della guerra, per lo scoppio della rivoluzione bolscevica”[1].
Gli sfollati furono quindi soprattutto donne, bambini e anziani, molti dei quali non avevano mai oltrepassato il confine della Valle.
Dopo aver sistemato le ultime cose nelle case, nelle stalle, nei campi e dopo aver nascosto sotto le assi del pavimento le provviste e i servizi buoni di piatti e lenzuola, la popolazione si mise in marcia per raggiungere la stazione ferroviaria di Riva del Garda.
Nessuno aveva idea di quale fosse la destinazione. Le uniche indicazioni fornite avvisavano della necessità di portare approvvigionamenti per qualche giorno di viaggio.
Caricata sui treni merci la popolazione ledrense intraprese il lungo tragitto che li avrebbe portati nelle zone più interne dell’Impero austro-ungarico, nell’Austria superiore, in Boemia e in Moravia.
Dopo tre, quattro giorni di viaggio giunsero a destinazione.
I paesi in cui vennero dislocati avevano nomi strani, difficili anche solo da pronunciare: Buštěhrad, Chyňava, Doksy, Družec, Nový Knín, Milín, Příbram, Ptice, Železná, Svárov, Všeň, Stříbro…
All’inizio fu molto dura. Si soffriva la fame, non si capiva la lingua e la popolazione locale diffidava dei profughi italiani che chiamavano dispregiativamente “talianski” ma, con il passare del tempo le cose migliorarono. Tutti gli uomini erano al fronte, c’era quindi una grande necessità di manodopera per lavorare i campi e gli italiani, soprattutto le donne, diedero dimostrazione di grande volontà, operosità e onestà.
Così facendo i ledrensi conquistarono la fiducia delle popolazioni boeme, impararono la lingua e si instaurarono rapporti di grande amicizia che, una volta tornati in Valle, sopravvissero al tempo e alla distanza.
Terminata la guerra, dopo quasi quattro anni di lontananza, tra la fine del 1918 e i primi mesi del 1919, i ledrensi poterono tornare alle loro case, in Valle di Ledro. Non fu semplice separarsi dagli amici boemi e soprattutto dai tanti cari che, non sopravvissuti a questa tragica esperienza, vennero sepolti nei cimiteri delle terre d’esilio.
Diamo i numeri:
Ledrensi nati in esilio: 107
Ledrensi morti in esilio: 405
Ledrensi morti o dispersi in guerra: 103
Il numero complessivo degli esuli ledrensi si aggira intorno alle 5 mila unità