domenica 1 maggio 2016

Ma la vecchia Ponale di chi è ?

mi chiedo a questo punto; ma la vecchia Ponale di chi è ?????
Riaprire ai veicoli la vecchia Ponale: la proposta in una mozione Lascia un commento
15 ottobre 2013 di Paola Malcotti
Riaprire la strada del Ponale in modo tale che la valle di Ledro possa disporre – in caso di assoluta necessità – di una viabilità alternativa al tunnel dell’”Agnese”. Sono in molti quelli che, all’indomani del tragico scontro tra due moto e l’incendio scoppiato in galleria di un mese fa, hanno avanzato l’idea relativa al ripristino del vecchio tracciato a picco sul lago quale unica soluzione possibile per evitare alla valle l’isolamento. Tra questi anche GianMario Trentini e Ezio Toniatti, consiglieri del Patt, che la prossima settimana porteranno in seno al consiglio comunale una mozione.
«Sul tema annoso della viabilità in galleria – scrivono – si discute da troppo tempo. Sono risapute le carenze strutturali e di sicurezza del tracciato e delle infrastrutture, che non vengono affrontate con tempestività. La recente cronaca ha evidenziato i limiti di un collegamento viario privo di garanzie in fatto di sicurezza. Il tunnel dell’”Agnese” risulta superato ed abbisogna di lavori di ammodernamento. Questo significa che in un prossimo futuro molto probabilmente si dovrà provvedere alla chiusura al transito nel tunnel anche per lunghi periodi. A questo punto viene spontaneo chiedersi come faranno i ledrensi a recarsi da e verso Riva.
La risposta che nasce spontanea e che è sulla bocca di molti è di riutilizzare la vecchia Ponale, strada che per decenni ha garantito dignitosamente il collegamento. Purtroppo qualcuno da molto tempo ha deciso però che quel tracciato è troppo pericoloso ed oneroso per essere mantenuto in servizio, nemmeno quale ultima ratio in caso di necessità per un’intera valle e, non pago della sua chiusura, ha deciso di declassarla a sentiero di montagna. Ora la situazione è sotto gli occhi di tutti: la vecchia Ponale, da meraviglia ingegneristica e vanto della valle è divenuta un percorso di mountain bike malamente manutentato e semi abbandonato. Non vi si accede più nemmeno con un mezzo di soccorso. La mozione vuole pertanto impegnare il sindaco a perseguire, presso tutti i livelli istituzionali, la messa in sicurezza dell’“Agense” e a valutare le possibili soluzioni atte a ripristinare almeno in parte – con una corsia, anche sterrata, di almeno tre metri di larghezza, a senso unico alternato – la vecchia Ponale».
Nessuna presa di posizione contraria arriva intanto da Fabrizio Di Stasio, presidente del Comitato Cis: «Per sgravare il disagio che potrebbe interessare un gran numero di ledrensi nel caso di lavori all’”Agnese”- dice – ci sentiamo di condividere questa scelta purché il sentiero rimanga “bianco”, con la posa di solo stabilizzato, senza asfaltatura, non venga compromessa la fruizione estiva del percorso agli escursionisti, si tenga conto delle nostre indicazioni. Ma soprattutto che venga garantito il ripristino a sentiero una volta terminati i lavori».
fonte: Paola Malcotti – l’Adige di oggi, martedì 15 ottobre 2013

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Le calchere


Le calchere
Le calchere sono delle fornaci che venivano utilizzate per la produzione della calce viva. Massi di pietra calcarea venivano raccolti, sistemati e cotti per ottenere la speciale sostanza che aveva molti usi in diversi settori. Nonostante non vengano più utilizzate, ne rimangono sul territorio ledrense circa una quarantina.
La calchera tradizionale, utilizzata per la cottura delle pietre calcareee, è una struttura circolare a tino in pietra di dimensioni variabili da 3-5 m di diametro e 4-6 m di altezza costruita normalmente entro un terrapieno. La costruzione in terrapieno aveva una duplice motivazione: da una parte una maggiore facilità costruttiva per le murature verticali che potevano essere parzialmente appoggiate, e dall'altra l'esigenza di avere un pendio di accesso all'aperturta superiore della calchera.
I materiali usati per edificare le calchere possono essere suddivisi in due gruppi: rocce calcareo-dolomitiche e rocce di deposito morenico (graniti, porfiriti, metamorfiti). Le calchere costruite con il primo tipo di rocce presentavano l'inconveniente di subire una notevole usura: durante la calcinazione si cuoceva infatti anche la parte interna della calchera, con conseguente diminuzione dello spessore della stessa. Ciò pregiudicava la struttura del manufatto che dopo diverse cotture doveva essere ricostruito o abbandonato. Per attenuare questo fenomeno si usava proteggere le pareti con un rivestimento di calce.
Costruita la calchera, in un luogo dove erano disponibili grandi quantità di sassi adatti alla cottura e raggiungibili con i carri, prima di inziare la "cotta" occorreva avere a disposizione grandi quantità di materiale legnoso sotto forma di fascine di diametro di 30-40 cm e del peso di 8-10 Kg. Per una calchera di media capacità (250 Kg di calce viva prodotta) occorrevano più o meno 3000 fascine che un boscaiolo specializzato riusciva preparare in circa un mese di tempo. Una buona parte del costo di produzione della calce era senz'altro dovuto alla necessità di procurarsi grandi quantità di legna. Il miglior combustibile erano fascine di abete e pino ma non venivano didegnati nemmeno scarti e ramaglie residue dalle lavorazioni in bosco e cespiglio come quelli di nocciolo, frassino e salice che non venivano usati nemmeno come combustibile nelle case.
Per la produzione della calce venivano utilizzate, cioè cotte, rocce di tipo calcareo che si trovano praticamente ovunque nela territorio ledrense. Le rocce venivano normalmente raccolte nelle vicinanze della calchera, lungo il greto dei torrenti e sotto le pareti, e la loro selezione in "calcari buoni" e "calcari non buoni" dipendeva dall'esperienza acquisita dal "calcherot" negli anni di lavoro.
Per far funzionare la calchera veniva innanzitutto raccolta la legna in fascine che venivano poi accumulate nei pressi della fornace. Generalmente il peso della calce viva prodotta corrispondeva a quello della legnautilizzata per la cotta. Completata l'opera di raccolta ci si apprestava alla preparazione della fornace. La prima fase vedeva la costruzione delle "bocche" del fornello e del "volt". Massi opportunamente squadrati venivano posti a cornice di un foro attraverso il quale si sarebbero poi introdotte le fascine di legna. Sotto la bocca veniva lasciato un foro di sfiato, utile anche per estrarre gli eventuali accumuli di cenere, risultato dalla combustione. Operazione particolarmente delicata, a questo punto, era quella della costruzione della volta che veniva a situarsi come un diaframma tra il fornello ed il materiale di carico. Su una sorta di banchina che circondava il fornello venivano poste, utilizzando la tecnica classica di costruzione della volta a botte, le pietre calcaree. I sassi, accostati l'uno all'altro a secco, si reggevano l'uno sull'altro; per dare stabilità alla struttura veniva posto al centro un masso a forma di cuneo, chiave di volta. La fornace era quindi pronta per essere caricata con il materiale calcareo raccolto. Quest'ultimo veniva sistemato a pezzatura decrescente: i sassi più grossi più prossimi alla fiamma. Una volta ultimato il carico ci si apprestava alla chiusura della porta.
Tutto era pronto per l'accensione della fornace: nel fornello veniva sistemato un cumulo di legna al quale si dava fuoco con una torcia. Da questo momento in poi l'introduzione delle fascine era regolare ed ininterrotta, ogni 3 minuti veniva introdotta una nuova fascina per 90 ore senza interruzione. Nella prima fase di cottura, dalla sommità della fornace si sprigionavano fiamme rosse; nell'ultima fase, la fiamma che usciva acquistava riflessi azzurrati. Le operazioni di scarico della fornace avvenivano un paio di giorni più tardi, quando la calce viva, raffreddatasi, risultava più maneggiabile. In genere la calce viva prodotta veniva pesata sul posto e venduta direttamente in loco agli acquirenti che si presentavano.
La calce veniva usata in molti settori con diverse funzioni. E' un materiale fondamentale nell'edilizia tradizionale: veniva impiegata nell'impasto delle malte, per intonaci e per le tinteggiature, per la disinfezione degli ambienti. In agricoltura era talmente diffusa che spesso nei cortili veniva approntata la cosiddetta "busa della calce", la fossa contenente una certa quantità di calce spenta e sempre pronta all'uso. Veniva inoltre utilizzata come conservante.
Nella Valle di Ledro, distribuite in tutti i sei comuni, specialmente in quello di Tiarno di Sopra, nella Val d'Ampola, in Concei e a Molina di Ledro, sono state censite 40 calchere.
(fonte: Le calchere del Comprensorio Alto Garda e Ledro, Museo Civico Riva del Garda)


La tragedia della Val di Genova

da "Senti le rane che cantano"
La tragedia della Val di Genova
Il 12 ottobre del 1950 in Val di Genova, dove si sta lavorando ad una galleria che serve a convogliare le acque di uno dei rami del Sarca agli impianti idroelettrici che sono in costruzione nel Trentino occidentale, scoppia una mina in anticipo: a morire sono in sei. La ditta colpita dalla tragedia è la SISM, la Società Idroelettrica Sarca-Molveno, concessionaria delle derivazioni d’acqua del fiume Sarca e del lago di Molveno. Questa impresa, nei cui cantieri si svolgerà buona parte dell’attività sindacale di Rino Battisti, a partire dagli anni ’40 aveva iniziato la costruzione di una vasta rete di cunicoli e gallerie che raggiunsero la lunghezza complessiva di 50 chilometri. Lo scopo era quello di imbrigliare la forza del fiume Sarca nella complessa opera di svuotamento e di regolazione delle acque del lago di Molveno e lo scavo in roccia dell’enorme caverna della centrale elettrica di Santa Massenza. La storia della SISM è costellata da numerosi incidenti mortali, 33 in tutto, una lunga scia di sangue che inizia nel 1948 e termina nel 1960, tra i quali uno dei più drammatici è proprio quello del 12 ottobre 1950 in Val di Genova. All’origine del disastro pare vi fosse stato l’uso di nuovi tipi di detonatori elettrici, forse difettosi, utilizzati per innescare l’esplosione d’una volata di mine nella finestra della «Prisa di Carisolo» della galleria di derivazione dal Sarca di Val Genova al lago di Molveno. Un incidente dunque non da attribuire alla fretta con la quale avvenivano solitamente le esplosioni delle mine, che molto spesso portavano alla morte dei fuochini, ma al materiale difettoso. A morire non sono solo degli operai, ma anche un ingegnere, il dottor Giuseppe Biasioli, 38 anni, veronese d’origine. Con lui periscono, come su un campo di battaglia, Antonio Giacoma-Bottalat, 50 anni, assistente tecnico, residente a Castelnuovo Nigra, in provincia di Torino; Albino Franzinelli, 41 anni, capo minatore residente a Molina di Ledro; Carlo Roggeri, 58 anni, fuochino, residente a Gazzaniga in provincia di Bergamo; Bortolo Rossi, 37 anni, di Castione Presolana, anch’egli bergamasco e infine Umberto Soranzo, ventisettenne autista, residente a Castello di Fiemme. Sei nomi e sei provenienze, sei età e sei professioni che ci dicono molto, ancora una volta, della composizione variegata dei lavoratori presenti sui cantieri idroelettrici trentini: tra i sei morti, solo due sono trentini, gli altri provengono da province vicine. Nei sette incidenti mortali avvenuti tra il marzo del ’48 e l’11 ottobre del ’50 che precedono quello avvenuto in Val di Genova, tra le vittime anche un giovane di 24 anni di Rocca di Cambio, in provincia dell’Aquila, Gesualdo Ottaviani, morto il 17 gennaio del 1950 sotto una frana in una galleria in Val d’Ambiéz, a ricordare la presenza in Trentino di tanti lavoratori del Sud64. I nomi di tutti coloro che perirono, ormai sepolti dal tempo, sono i nomi di chi diede la vita in cambio di un lavoro; forse risuonano ancora negli echi di quelle strette vallate o nelle gallerie ormai invase dall’acqua. In occasione dell’incidente in Val di Genova Sisinio Tribus si fa giornalista e racconta con partecipazione il dramma di un’intera valle:
«Le sei salme vennero portate sulle barelle nella cappella di S. Vigilio, al cimitero, dai compagni di lavoro. Poi, la notizia che correva veloce sui fili del telefono, dal ticchettio dei telegrafi, ai giornali, nelle vallate, nelle città, portando orrore e sgomento e dolore. Poi la veglia notturna alle salme, l’ultimo addio dei minatori, di tutti i minatori della valle, il saluto dei bimbi, saluto innocente fatto con pochi fiori di campo, il saluto delle donne della Rendena, nei loro abiti neri delle grandi occasioni, lo strazio dei parenti. Una marea di gente sostava ai margini della strada polverosa, in attesa che le sei bare uscissero dalla cappella, portate a spalla dai minatori.»


La radice semantica TR


Una vecchia cartolina di Tremalzo mostra i resti di una massiccia muraglia di pietra immediatamente di fronte al rifugio Guella.
Come hanno testimoniato recenti ricerche archeologiche nell'area, la località ha una storia millenaria, che personalmente ritengo ancora tutta da scoprire. Era un passo che metteva in comunicazione popolazioni che possedevano culture evolute, ovviamente in relazione alle epoche del neolitico e dell'età del bronzo.
Ne è testimonianza la denominazione della località, che non ha nulla a che fare col numero tre.
La radice semantica TR si ritrova nelle lingue di origine più antica, come nel sanscrito e nelle antichissime lingue di origine indo-europea. La comparazione tra le varie lingue ha permesso di stabilire che la ricorrenza della radice semantica tṝ, composta dal suono t dentale "t" e dalla r vocalica lunga "ṛ" (il sanscrito considera foneticamente la r anche con valore vocalico) è in relazione al significato primario di passare attraverso.
Ne rimangono tracce nel latino (trans) e in tantissime parole italiane: TRaversare, TRasportare, TRamontare (andare oltre i monti), TReno, TRansitare, TRavalicare, TRasportare, TRadotta, TRaforare, TRaghettare, TRagittare, TRasferire, TRapassare… e mi fermo solo alla primo vocale!
In latino è poi evidente l’analogia semantica con il termine “altius”, che significa “di altezza maggiore”, “più in alto”.
Dunque TR + ALTIUS … lascio a chi legge la conclusione.

Severo Donati (Tiarno di Sotto, 1857/1936) La palafitta


La palafitta
Severo Donati (Tiarno di Sotto, 1857/1936)
Se i òmegn de Val de Leder i à‘mpianta propri ‘n del Lach,i pai da farghè sòra ‘l so bel paés,come ì usava alòra,me par che ‘n bò déerito i l’hai ciapà,de dir che ‘l Làch l’è so, e che no gàpropri nigù resò de vignir föra,a questionar adés, parché a st’ora,tuç i laòr precisi no si sa!
Però li ‘n mez ai pai me parde vedèr fermi ‘mpale, i patrò de Val de Lédere a mi che ghe domando: a chi èf lasà,quando sé mòrç, la vòsa redità?
I me rispondi: e tèra e Lach e òr,tut quant a v’altri, e pöch a quei da Stòr.
Donque la Val col Lach la n’è vignia per la resò de giusta parentela;e tal e quàla sémper l’om tignia;l’òm canopà, pescà e fata béla!
La Val l’èi mèssa a la revèrsa,ma sòra ‘l Garda,‘l pù zeleste e bel de tüç i lach,che
come na traversa giù, giù,‘l se slonga luster come ‘l ziel.L’acqua de Cadria e Ranc
la se riversagiù ‘n de stò lach, che vist a star sul Gel,quande la nebia ‘n po’ la s’à dispersa,a dirlo ‘n mar, no sé ghen taca ‘n pel.

Su pè stò làch ‘l vè su aria sana,n’òra légéra, tìviacome ‘l làt,n’òra, che te ‘ndre ‘l frèt de tramontanae che te fa sintìr sòta ‘l crosàt,che la tò mari l’èra na italiana,e che taliàà del zèrto la t’à fàt.

IL PRINCIPE VESCOVO E LE COMUNITÀ DI VALLE: L’ESEMPIO DELLA VAL DI LEDRO (1159)

IL PRINCIPE VESCOVO E LE COMUNITÀ DI VALLE: L’ESEMPIO DELLA VAL DI LEDRO (1159)
La strategia adottata dal principe vescovo di Trento per costruire la propria sovranità nel territorio del principato vescovile, attraverso accordi e pattuizioni con le forze sociali e politiche radicate in loco, è diversificata da caso a caso. Rispetto a comunità politicamente importanti, come quelle che riuniscono in una sola realtà diversi comuni di una intera vallata, il vescovo manifesta una particolare prudenza ed è incline a delegare al massimo le sue prerogative sovrane. È quanto accade alla più importante comunità di valle trentina, quella della val di Fiemme, ma analogamente anche ad altre realtà del territorio trentino. Così ad esempio, alla comunità della valle di Ledro, all’estremo confine occidentale del principato e della diocesi: il vescovo Adelpreto sottoscrive con esso un accordo in cui viene concessa innanzitutto l’essenziale prerogativa dell’amministrazione della giustizia. Il luogo di stipula è ancora una volta Riva del Garda, l’anno il 1159.
«Al la presenza di costoro Adelpreto vescovo della Chiesa trentina, con un legno che teneva in mano, liquidò agli uomini di Ledro i diritti sul placito di san Martino e su quello di Pasqua con questo patto: che gli uomini di Ledro debbano ogni anno dare al vescovo o ai suoi successori sul mercato di Riva 50 arieti e 4 vacche e 75 lire di denari veronesi; al mercato di sant’Andrea 75 lire e 20 arieti e 2 vacche e 2 maiali, senza alcun inganno».
I «placiti di san Martino e di Pasqua», dunque in autunno e in primavera a distanza all’incirca di sei mesi, sono le assemblee giudiziarie: le due sole occasioni, lungo tutto l’anno, nelle quali l’autorità pubblica – nel nostro caso, il vescovo – si trasferiva in loco e amministrava la giustizia nelle materie penali più gravi. Erano occasioni che costituivano anche – per ambedue le parti, il signore e i sudditi – una rassicurante conferma della sovranità. Orbene, il vescovo Adelpreto rinuncia anche a questa sua prerogativa, di fatto sancendo implicitamente un pieno autogoverno di questa comunità. In effetti la deliberazione successiva è pienamente conseguente. Con la rinuncia del vescovo, si è creato in sostanza un vuoto di potere, un’assenza di giurisdizione: e allora
«se sarà commesso qualche adulterio o omicidio o si constaterà qualche matrimonio fra consanguinei, debba essere fatta giustizia sotto il p[otere?] dei villici episcopali, o sotto il potere del visdomino o dell’arcidiacono a spese di colui che ha recato offesa, senza altri inganni. Quanto al servizio, dovranno corrispondere 150 lire al vescovo e 50 alla curia dei vassalli; e se avranno dato un uomo, si dovrà scalare la somma corrispondente alla quota di costui».
La bilateralità del patto, che formalmente si presenta come una concessione ‘graziosa’ del vescovo, è particolarmente evidente dalle clausole finali . Gli attori stabiliscono vicendevolmente come penalità che se uno dei due contraenti avrà derogato da questo accordo e patto, oppure non lo avrà osservato in tutto e per tutto come è scritto di sopra, allora la parte colpevole paghi alla parte rispettosa dei patti 200 lire veronesi di buona moneta.
G.M.V.



Il museo delle palafitte di Ledro

da "Lago di Garda magazine"
Il museo delle Palafitte a Molina di Ledro
L'estrema scarsezza di reperti non permette che limitate interpretazioni sulla costituzione fisica degli abitanti. Per quanto riguarda la statura edia, facendo un raffronto con gli altri abitanti lacustri di quei tempi, si presume di cm. 156. Anche nella stazione di Ledro, come è regola per gli abitanti palafitticoli preistorici, è stata rilevata l'assenza di inumazioni. Questo fatto fa pensare che i palafitticoli praticassero il rito di bruciare i propri morti. Le opinioni riguardanti i dati cronologici della colonizzazione del Lago di Ledro da parte dei palafitticoli sono discordi, il dato cronologico inferiore, di origine, è collocato fra il 2000 e il 1800 a.C., e quello superiore fra il 1500 e il 1200 a.C.
Il periodo della Pietra in Val di Ledro
La pietra, scheggiata, levigata o grossolanamente abozzata, ha costituito insieme al legno la materia d'uso che si prestò a tutte le esigenze strumentali fin dai primordi dell'umanità. Nella palafitta a Molina di Ledro, che vide il suo pieno fiorire nell'età del bronzo, la permanenza di un suo uso diffuso ed esteso a vari settori d'impiego, è ovunque documentata con relativa abbondanza. La categoria di manufatti maggiormente indicativa, anche se di minuscole dimensioni, è rappresentata dagli oggetti in selce, che, come è noto, data la sua durezza e la sua fragilità, non si presta ad altra lavorazione che non sia la scheggiatura. Troviamo rarissimi pugnali a foglia di lauro e poche punte di freccia, schegge ritoccate e destinate a raschiatoi. Le asce sono generalmente di piccole dimensioni con lati lunghi e curvi e lati brevi e dritti. Solo in un unico esemplare è stata reperita un'ascia tipo "ferro da stiro" con foro per il manico. In pietra arenaria sono i lisciatoi ed i frammenti riferibili a forme di fusione per il bronzo ricavati direttamente dalle forme di massi e ciottoli di rocce cristalline che costituiscono una vicina morena glaciale. Sono una serie di oggetti di uso assai diffuso le pietre da focolaio, in genere in granito, pietre per la molitura, usate per ridurre i cereali in farina, mazze e martelli.
A scopo chiaramente ornamentale sono i grani di ambra che si rinvengono con una certa frequenza nel deposito. Sulla loro provenienza non si può asserire nulla, si può però sostenere l'ipotesi che li vedrebbe inseriti in quel flusso di scambi commerciale con palafitticoli boemi, dedotto da molteplici altri indizzi.
La Tessitura in Val di Ledro
Pesi da telaio in notevole abbondanza, fusaiole talora ornate con impressioni puntiformi, pettini da telaio in corno di cervo, aghi in osso, oltre a lembi di stoffa sono la documentazione materiale di questa attività. La stoffa veniva tessuta con filo di puro lino e si presenta: ora a trama piuttosto serrata, ora più larga. Fu reperita in brandelli, in rettangolini soprapposti che denunciano l'uso di ripiegarla, ed in strisce arrotolate, una delle quali costituisce una vera e propria cintura.
L'interesse maggiore di questo rinvenimento, probabilmente unico, è costituito dal fatto che la trama si intesse ai due bordi con l'ordito senza soluzione di continuità, il che presuppone l'uso di un telaio di ridotte dimensioni. Niente ci vieta di immaginare, anche se non ne abbiamo alcuna prova, che i prodotti tessili destinati al vestiario siano stati colorati con sostanze vegetali, come è costume antichissimo.
Vale la pena di aggiungere che l'assenza di filati di lana è ascrivibile alla facile decomposizione di tale sostanza.
L’ambiente e l’alimentazione in Val di Ledro
I reperti archeologici rilevano una composizione di specie animali e vegetali non molto dissimile da quella che potrebbe essere l'attuale, in mancanza dell'intervento modificante dell’uomo. Tra i molluschi sono state trovate in notevole quantità le valve dell’Anodonta Mutabilis Cless, ostrica d'acqua dolce. Gli animali domestici di maggiore importanza economica sono: buoi, capre, pecore e suini, di dimensioni medie rispetto alle faune dell'età dei metalli. Il cane presente in Val di Ledro si inserisce in una forma evolutiva intermedia tra l'età della pietra, quella del ferro e romana. L'orso possiede una variabilità non molto grande ed una statura media rispetto alle altre faune europee, anche se qualche reperto indica la presenza di alcuni individui di dimensioni maggiori. Il cervo, il capriolo, la volpe ed il camoscio non hanno permesso osservazioni particolari. Il cinghiale è presente con un paio di reperti.
Ledro era un villaggio economicamente autosufficiente, la sua fauna domestica era sfruttata in modo da soddisfare al massimo i bisogni della popolazione. La fauna selvatica era appena presente, cacciata e consumata episodicamente nel villaggio. La fauna domestica era allevata senza particolari precauzioni. L'allevamento era estensivo, almeno in estate, ed in inverno si poneva il difficile problema della nutrizione che provocava forse spesso la macellazione degli animali in età giovane. Con la sola valutazione dei resti del pasto ritrovati è possibile tracciare un quadro sufficientemente orientativo dell'alimentazione e tenore di vita. Tutti gli animali terrestri di cui si è parlato costituivano fonte di pasto, e molto verosimilmente lo spolpamento delle loro ossa era integrale.
La lavorazione del legno in Val di Ledro
Per le antiche popolazioni alpine il legno rappresentava la materia d'uso di primaria importanza. Prescindendo dall'ovvio impiego nella costruzione delle capanne, palizzate di difesa, etc., il legno, nella cui lavorazione i palafitticoli rivelano totale padronanza, si è prestato alla confezione di gran parte degli utensili casalinghi, attrezzi da caccia e difesa, imbarcazioni, eccetera. E' legittimo immaginare una varietà ed una quantità più vasta di quanto possano documentarci i resti reperiti negli scavi. La lavorazione del legno in Val di Ledro avveniva: o direttamente mediante taglio con lama degli oggetti di mole ridotta, oppure con il predisporre la forma di base avvalendosi del fuoco e successivamente dando ritocchi finali con strumenti da taglio o abrasivi.
I manufatti più rappresentativi sono ciotole, padelle, taglieri, manici di problematica interpretazione, che costituivano probabilmente lo strumento per la confezione dei pasti. Come armi sono interpretate le mazze a testa sferoidale, oggetti fusiformi che sono descritti come boomerang, e archi di legno. L'impiego del legno in agricoltura è documentato dal rinvenimento di un aratro, con punta robusta ed asta per il traino. Una categoria di reperti di rilevante interesse interpretativo è costituita dalle conoe monoxili.
Strumenti in osso e corno in Val di Ledro
Molteplici servizi offrivano gli strumenti costituiti dall'ossame e dalle corna degli animali. Dai tarsi e dai cubiti di varie specie animali si ricavavano punteruoli e pugnali, oltre che spatolette, aghi da cucito, cerchietti ornamentali, fibie, salvapolso per l'uso dell'arco, eccetera.
In vario modo erano usate le corna dei cervi, la cui relativa abbondanza non stupisce se pensiamo alla loro caducità annua, esse costituivano martelli o percussori, oppure potevano accogliere strumenti in metallo. Se forate si adattavano ai manici di legno. I rami laterali, inoltre, potevano costituire uno strumento per modellare la ceramica. Sempre di corno cervino due eleganti pettini da tessitura. Il corno di capriolo, animale che dai reperti risulta più raro del cervo, non trova analoghi usi se non in forma limitata.
La ceramica in Val di Ledro
La varietà e la quantità di manufatti ceramici a Ledro è veramente enorme ed il tipo, la forma e le dimensioni svariatissime. L'impasto, generalmente grossolano e smagrato con vari additivi minerali, si presenta spesso fine, ben levigato e lucido. Il colore è monotonamente nero o scuro, brunastro o rossiccio, quando non sia impallidito per sovracottura a causa di incendio. Le dimensioni sono molto varie.
Una valutazione colloca al primo posto come frequenza i grandi orci tronco-conici da derrate alimentari, con decorazione costituita quasi di regola da cordoni realizzati e ricavati dallo spessore del vaso, o applicate, che spesso abbracciano o circondano a spirale il corpo del recipiente e denotano un gusto estetico ancora attuale.
Molto presenti sono poi gli svariati tipi di boccali, ciotole e piccole tazze, che spesso si rinvengono integre grazie al loro piccolo ingombro. Pure in terracotta sono, in ordine di frequenza di reperimento: pesi da telaio, fusaiole, rocchetti, mestoloni per il trattamento del bronzo fuso, piatti con bordo appena alzato, "zuffoli" usati come soffioni per il fuoco, dischetti rotondeggianti il cui uso può essere quello di pegni per giochi, e i cosiddetti "oggetti enigmatici", piccoli segmenti rettangolari con segnature e punteggiature impresse prima della cottura. A puro titolo di curiosità si può citare il diffusissimo uso di un legante adatto a stagnare od aggiustare i recipienti in terracotta, anche per rotture che fendono tutto il loro corpo. Si tratta dello stesso materiale usato per fissare strumenti di selce in impugnature lignee, od ornamenti a vari supporti.
Varie piccole formelle di tale collante, con forma che ricorda quella dello strobilo di abete, sono state reperite negli strati, ed un'analisi delle stesse le vorrebbe composte di gomma di tabarinto commista a qualche macinato indeterminabile
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